L’alienazione morale e la cecità politica di chi tifa per la pace di Putin

Dicembre 15, 2025 - 10:07
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L’alienazione morale e la cecità politica di chi tifa per la pace di Putin

Anche la guerra russa all’Ucraina conferma che, come sosteneva Luigi Einaudi, «il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale». A dimostrarlo è come Matteo Salvini e Giuseppe Conte, in modo aperto, e il resto della maggioranza e del Campo Largo, in modo appena più dissimulato, sollevino la questione dei costi insostenibili per i Paesi alleati del sostegno all’Ucraina: i possibili contenziosi giudiziari per l’utilizzo delle riserve russe in Europa, le ritorsioni del Cremlino verso le imprese europee e le onerose garanzie degli Stati membri per nuovi prestiti Ue a Kyjiv. Ucraina, quanto ci costi

Perché il sacrificio dell’Ucraina appaia, anche in una logica puramente egoistica, il male minore, occorre partire da una tale relativizzazione della differenza tra il vero e il falso, tra il bene e il male e tra la vita e la morte da fare apparire utilitaristicamente razionale ciò che altrimenti apparirebbe evidentemente non solo mostruoso dal punto di vista morale, ma suicida dal punto di vista economico: il sacrificio di decine di milioni di europei all’idolo necrofilo del Russkiy Mir, l’apertura delle porte dell’Europa alle pretese di Mosca, l’iscrizione di un’ipoteca militare nemica sui destini dell’intero continente.

Gli europei che considerano preferibile che una parte d’Europa diventi una sorta di Vichy putiniana, perché questo permetterebbe agli Stati della parte rimanente di risparmiare per i prossimi anni spese pari grosso modo allo zero virgola tre per cento dei rispettivi Pil nazionali (tanto costa, pro quota, ai Paesi dell’Ue con Regno Unito e Norvegia coprire il deficit ucraino del duemilaventisei e del duemilaventisette con settanta miliardi all’anno), devono rimuovere il principale effetto economico che il premio all’aggressione determina sul piano delle relazioni internazionali, cioè l’incentivo a ripeterla.

Per quest’opera di rimozione, i motivi puramente politico-ideologici non sono esaustivi e neppure sufficienti. Non c’è dubbio che una congenita ostilità ai principi della società aperta – stato di diritto, libero mercato, divisione e limitazione dei poteri pubblici – alla base della costruzione europea oggi possa portare i sovranisti e i populisti, i nostalgici del nazionalismo e quelli del comunismo e i loro figli nati dai matrimoni misti rossobruni a identificare la guerra russo-americana contro l’Europa come una gloriosa vendetta e un godibile risarcimento della duplice sconfitta del millenovecentoquarantacinque e del millenovecentoottantanove.

Ma per sentire e vivere, e non solo difendere, questa catastrofe come un rovescio provvidenziale della storia serve cancellare anche quel minimo di immedesimazione morale che è il presupposto di qualunque scelta razionale, perché consente non solo di sentire il peso del dolore di chi subisce l’ingiustizia, ma anche di avere coscienza del guadagno e del senso di impunità che determina i violenti a infliggerla.

Nel mantra «Noi non siamo in guerra con la Russia. La Russia non è il nostro nemico», ripetuto in Italia non solo dai manutengoli del Cremlino, ma anche dalle ancor più folte schiere degli aspiranti minimizzatori del costo della solidarietà all’Ucraina, non c’è assolutamente nessun realismo e nessuna etica della responsabilità nazionale.

Non è solo moralmente ignobile, ma politicamente suicida pensare di fare scomparire la presa a tenaglia sull’Europa dell’America di Donald Trump e della Russia di Vladimir Putin, di cui la spoliazione bilaterale dell’Ucraina è solo il capitolo iniziale, con gli abracadabra e gli arabeschi diplomatici o di allentare la stretta soffocante dell’alleanza russo-americana con le ruffianerie servili e i tributi resi alla benevola grandezza dei rispettivi disegni storici.

Passarono rispettivamente seicentoventitré e seicentoquarantacinque giorni dalla firma dell’accordo di Monaco, il trenta settembre millenovecentotrentotto, alla caduta di Parigi (quattordici giugno millenovecentoquaranta) e all’inizio dei bombardamenti del Regno Unito (dieci luglio millenovecentoquaranta). «Oggi in Spagna, domani in Italia» era il motto ottimistico degli antifascisti che, alla fine degli anni Trenta, accorsero a difendere la Repubblica nella guerra civile contro Francisco Franco. «Oggi in Ucraina, domani in Italia e in Europa» è purtroppo la facile previsione di quel che accadrà a seconda del destino che gli europei sceglieranno di riservare al più coraggioso e consapevole popolo europeo.

Da giorni si discute delle cosiddette questioni giuridiche legate all’utilizzo degli asset sovrani russi per finanziare indirettamente la resistenza dell’Ucraina. Ed è possibile che, con il determinante e già annunciato concorso italiano, il Consiglio europeo dei prossimi diciotto e diciannove dicembre si incagli nuovamente su questo punto e rimandi ulteriormente la questione del sostegno al bilancio ucraino, che, dopo la fine degli aiuti americani, è interamente sulle spalle degli europei ed è sempre più limitato e insufficiente.

Il risparmio dei costi necessari a tenere l’Ucraina militarmente ed economicamente in piedi per resistere all’aggressione e per non essere costretta ad accettare un accordo per fame diventerebbe un debito di svariati multipli, scaricato sulla società europea, se a Vladimir Putin fosse lasciato pacifisticamente campo libero. Tutto quello che risparmieremo oggi lo pagheremo a breve, con interessi usurai, domani e dopodomani, se accetteremo il racket del Cremlino e della Casa Bianca come nuovo ordine globale di pace.

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