C’è una Bologna prima del 2 agosto del 1980 e ce n’è una successiva

Agosto 2, 2025 - 18:30
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C’è una Bologna prima del 2 agosto del 1980 e ce n’è una successiva

2 agosto 1980. Sappiamo chi è stato. La frase è scritta su una colonna a pochi metri dalla stazione di Bologna. Scatto una fotografia, l’anno è il 2014, da quella volta la posto ogni anno sui social come promemoria della terribile strage neofascista. Solo dopo averla scattata realizzo che il giorno in cui mi trovo la scritta davanti agli occhi è il 2 agosto, un altro 2 agosto, diverso nel tempo e nello spazio, carico d’estate e di speranze, lo stesso bagaglio d’attesa e profumo che accompagnava chi si trovava dentro la stazione quel giorno, le speranze di chi è morto e di chi è sopravvissuto. Amo Bologna, la sua stazione, amo passarci. Per anni, quando abitavamo in città diverse, è stato il posto – a quest’ora, a tale binario – in cui io e mia moglie ci davamo appuntamento, per proseguire insieme verso Roma, Napoli, Ancona, la Puglia, o semplicemente per fare due passi sotto i portici della città. Perciò transitare, passare da Bologna rimanda quasi sempre a momenti felici. È un luogo che sa di gente, di vita, di incroci, di zaini e trolley che salgono e scendono, ancora di più da quando c’è il labirinto della stazione av sottoterra, sbagli una scala mobile e ti ritrovi in un parcheggio. È un luogo, però, che sa anche di malinconia, di memoria, del dolore che lo ha attraversato, che lo attraversa.

Quando è morto mio padre, avendo preso il biglietto in tutta fretta, non ho trovato un diretto Venezia-Napoli – la morte ti spinge a sbrigarti –, ho dovuto cambiare nella desolazione della stazione av, scendevo forse al binario 16, ripartivo, ipotizzo, dal 17. Era ora di pranzo, ero sgomento, sarò stato in attesa non più di venti minuti, preso da pensieri tristi, solo come poche altre volte mi è capitato di sentirmi, con un padre in meno e niente da fare. Ho preso un caffè nel piccolo e anonimo bar, e ho pensato: anche oggi Bologna, anche oggi fai la tua parte. Nessuno può passare da questa stazione senza avvertire una piccola scossa, un turbamento, ancora prima di guardare l’orologio fermo all’ora dell’esplosione, di leggere le incisioni in ricordo delle vittime. Quell’orologio, quelle persone che non ci sono più sono le nostre care cose, ci appartengono, ognuna di loro è un nostro frammento, è chi è passato dove anche noi passavamo, avremmo potuto passare, l’abbiamo scampata per caso, e perciò continuiamo a passare.

Enrico Palandri ha scritto: «Tra le pietre un gettone, la testa di una bambolina, un paio di occhiali, un mocassino di pelle morbida. Le autoambulanze arrivano a decine, i cadaveri, coperti da un lenzuolo, vengono provvisoriamente allineati sul piazzale e mentre guardo la gente in questa sala oggi e i nomi su questa lapide non capisco ancora che cosa ci allontani da loro»; è il pensiero del protagonista di un romanzo, che avendo perso una coincidenza alla stazione di Bologna immagina quel 2 agosto, andando all’indietro, alle persone che si trovavano lì perché avevano perso una coincidenza come lui e aggiunge che è una strage che ci riguarda tutti, anche chi non c’era, e penso, con lui, anche chi è nato dopo, anche chi continuerà a nascere.

La parte finale della riflessione fissa un punto importante, qualcosa che ci allontana dai morti, dai nomi sulla lapide. Il personaggio di un romanzo ci aiuta a vedere: ci muoviamo con delicatezza e forza lungo un confine esiguo e mobile, da un lato la storia che ci riguarda, che ci appartiene nostro malgrado, dall’altro la nostra voglia di non farci toccare, la nostra – talvolta involontaria – indifferenza. Io con i morti di Bologna mi sento in debito, come con quelli di piazza Fontana, come con quelli di piazza della Loggia. Sono vivo, credo, in qualche maniera, grazie a loro. Non perché si siano sacrificati o ne avessero voglia, ma perché sono la mia storia.

Avevo da poco compiuto nove anni quel 2 agosto, e pochi mesi dopo ci sarebbe stato il terremoto dell’Irpinia, che devastò gran parte della Campania, regione dove sono nato e vivevo. In quegli anni d’estate i miei genitori ci portavano spesso a Rimini, per raggiungere gli zii che arrivavano da Milano. Scendevamo alla stazione di Bologna e i milanesi ci caricavano in macchina. E andavamo in agosto, quando mio padre chiudeva per ferie il negozio; per qualche strano motivo nel 1980 scelsero la Liguria, o forse ricordo male e non ci muovemmo da Napoli. Il 1980 è l’anno in cui l’ho scampata e durante il quale ho capito che vivere e morire è questione di un attimo, e di fortuna. Ero troppo piccolo per fare un ragionamento, ma qualcosa mi è entrato dentro e non mi ha più lasciato, come un tremito, come una sorta di consapevolezza. Ho avvertito la nostra precarietà. Il treno che amavo fin da piccolissimo – e che io e mia sorella adoravamo prendere – non era più un luogo sicuro, un convoglio, un mezzo, un tramite, era diventato un posto in cui potevi lasciarci la pelle, anche se eri un bambino, anche se stavi andando in vacanza. Ogni volta che passo da Bologna penso a tutte queste cose e penso che non vorrei cambiare treno in nessun altro posto al mondo. Bologna allaccia, connette, prende tutti i binari del Nord e li butta a Sud, prende ogni rotaia del Sud e la scaraventa verso Nord. La stazione di Bologna significa tante cose, molte hanno a che fare con la parola amore.

I binari in superficie della stazione di Bologna paiono propagarsi in un orizzonte che li disperde, è tutta una foto scattata in orizzontale. Se ti metti sul binario 1, impugni il cellulare, scegli il grandangolo, ebbene, prima di scattare, sei preda di una rotaia a perdita d’occhio, quanti binari sono uno la schiena dell’altro? Saranno dodici, tredici, quattordici, il numero non importa. Conta ciò che l’occhio percepisce: oltre il tuo sguardo, oltre il punto che non puoi raggiungere, Bologna avrà sempre un altro binario, stiamo parlando di possibilità, di speranza.

E se guardi alle tue spalle? Ci sono i bar, i nuovi e i vecchi, una farmacia, gli altri binari, la piazza antistante la stazione, gli autobus, le case. Le finestre, alcune il giorno dell’esplosione andarono in frantumi, Anna Toscano in una poesia, in cui dichiara il suo amore per il capoluogo emiliano, scrive: «Amo Bologna / ci viveva mia nonna / e una zia / a cui crollarono i vetri nell’attentato». Le vite degli altri, la storia di tutti. Luigi Bernardi, uomo capace di guardare al futuro come pochi, e amante dei treni e dell’alta velocità, mentre stavamo chiacchierando, preso da una vena malinconica mi disse qualcosa come: «C’è una Bologna prima del 2 agosto del 1980 e ce n’è una successiva. Nessuna delle due è migliore dell’altra, sono solo diverse, diverso è il carico che le due città devono sopportare, gestire. La memoria pesa di più, per esempio, della creatività, ma entrambe sono una spinta. Sono due città diverse, il problema è quando si sovrappongono». Aggiunse una cosa che non posso dimenticare: «Forse sei il tipo di persona che può capire questo tipo di assurdità». Gli risposi che non sapevo se avessi davvero capito, ma che avevo sentito qualcosa. Eravamo a Bologna, seduti al tavolino di un bar poco distante da casa sua. «Capirai».

[…]

È tempo di andare. La stazione di Bologna, le targhe commemorative, l’orologio fermo alle 10.25 e poi i treni che vanno e vengono, quelli ad alta velocità e i regionali e gli interregionali, i nomi dei neofascisti colpevoli, le coperture, i processi, le sentenze, i nomi luminosi delle vittime, il coraggio dei loro cari, tutti i sopravvissuti, le persone che passano di qua, gli zaini, le valigie, ogni cosa è quel giorno, ogni cosa di quegli istanti ci riguarda, ci mostra chi siamo.

Amo la stazione di Bologna. Mentre vado verso le scale, vedo al centro della banchina un ragazzo, sembra che stia saltando, ma sta ballando, balla a braccia aperte tra il binario e la pioggia e non posso fare a meno di sorridere e di pensare che sia lui il ballerino di Lucio Dalla e che da qualche parte, in un mondo parallelo, sia riuscito a fermare il treno Palermo-Francoforte, per la nostra commozione, per la nostra infinita commozione.

Non era un mostro strano

Tratto da “Non era un mostro strano” (66thand2nd), di Gianni Montieri, 17€, pp. 144

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