Chiarimento tra Violante e Sofri, un’occasione persa

Lug 18, 2025 - 01:00
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Chiarimento tra Violante e Sofri, un’occasione persa

La vicenda legata al “caso Sofri” si è conclusa giudiziariamente ormai un quarto di secolo fa, ma a quanto pare è politicamente ancora dolorosamente aperta, come ha dimostrato quanto è comparso su Repubblica la settimana scorsa in due occasioni. La prima con una lettera di Adriano Sofri alla rubrica di Francesco Merlo martedì 8 luglio, e la seconda con una singolare risposta di Luciano Violante, tramite una intervista con Annalisa Cuzzocrea sullo stesso quotidiano di giovedì 10 luglio.

Sofri aveva scritto a Merlo: “Quando fui coimputato dell’omicidio di Luigi Calabresi, e si sollevarono dubbi sull’imputazione e sulla conduzione dell’indagine, Violante si dichiarò convinto della mia colpevolezza perché c’era a provarla ‘una fonte non ostensibile’. Interrogato su quale fosse questa ‘fonte’, disse di non saperlo. Ora, siccome si fa tardi, chiederei a Violante di dire, se non chi fosse la ‘fonte’, almeno chi lo avesse detto a lui, così autorevolmente da persuaderlo della mia colpa.” Interpellato in proposito dalla giornalista, Luciano Violante ha risposto in questi termini: “Un amico, un sodale di Sofri, nel 1993 mi chiese di sottoscrivere un appello per la sua innocenza. Dissi di no perché ero convinto della sua responsabilità e perché avevo una fonte, che non potevo rivelare, che aveva consolidato quella mia convinzione”. La giornalista gli ha replicato: “Perché non dire di chi si trattava? Per valutare il peso di quella fonte?”. Violante a sua volta ha risposto: “Era una notizia a carico e non entra nel processo. Se una persona mi vincola alla riservatezza, io rispetto quell’impegno”. Ancora la giornalista chiede: “E perché non dirlo oggi?”. Ulteriore risposta: “La serietà non va in prescrizione. Quella dichiarazione non fu fatta in sede giudiziale o in un evento pubblico”. Ancora la giornalista: “Lei era il presidente della commissione Antimafia, quella sua convinzione si diffuse e poteva avere un’influenza importante su un processo in corso”. Definitiva replica di Violante: “Ripeto, era una notizia contro la persona poi condannata. La sentenza si basa su fatti, non su opinioni”.

Essendo passato qualche giorno e non essendone tutti i lettori de l’Unità necessariamente a conoscenza, ho ritenuto doveroso riportare questo scambio indiretto tra Sofri e Violante nel dettaglio. E riprendo qui ora anche un successivo commento del difensore di allora di Sofri, l’avvocato Alessandro Gamberini: “È singolare che Violante non colga l’enormità di quello che dice. Era ovviamente del tutto legittimo che non firmasse un documento sulla innocenza di Adriano Sofri sulla base di un suo convincimento derivante da informazioni assunte. Ma era fuor di luogo giustificare pubblicamente questo suo rifiuto perché una prova della responsabilità gli era stata offerta da persona che non intendeva nominare. Con ciò usando una clava nei confronti di una persona in condizione di minorata difesa, vista la veste istituzionale che rivestiva all’epoca come presidente della Commissione parlamentare antimafia, che conferiva alle sue parole una credibilità esponenziale”. E poi Gamberini ha ancora aggiunto: “A distanza di trent’anni non rivela la fonte perché assume di essere legato a un vincolo di riservatezza, che non intende tradire, quello stesso vincolo che avrebbe dovuto impedirgli di chiamarla in causa in veste anonima. Quanto ai ‘fatti’ che hanno giustificato la condanna, forse varrebbe ricordare che non erano così chiari, se è vero che sono occorsi undici gradi di giudizio per giungere a una condanna definitiva, dopo assoluzioni, sentenze suicide, giurie presiedute da presidenti che avevano anticipatamente espresso la loro volontà di condanna, motivazioni messe in crisi da una revisione ammessa e poi ingiustificatamente negata”.

Per lealtà intellettuale, devo ricordare che personalmente sono sempre stato convinto dell’innocenza di Adriano Sofri, che ho ribadito in tutte le occasioni. Nel corso dell’istruttoria, mi ero anche presentato per una deposizione spontanea di fronte al giudice istruttore (tale era allora) Antonio Lombardi e successivamente sono stato sentito come testimone nel processo di primo grado, nell’aula della Corte d’assise di Milano. Infatti, in una prima fase, anch’io (che all’epoca ero senatore) ero stato indiziato nell’istruttoria del processo Calabresi, e, dopo aver presentato una denuncia per calunnia, ero stato prosciolto già alla fine dell’istruttoria, come del resto anche Mauro Rostagno, che però nel frattempo era stato assassinato a Trapani dalla mafia il 26 settembre 1988. Nell’aula della Corte d’assise avevo testimoniato anche che, molti anni prima delle “rivelazioni” di Marino, un magistrato aveva cercato (inutilmente, per mia fortuna) di far dire ad un detenuto, “dissociato” per altra causa, che potevo essere io stesso il mandante dell’omicidio Calabresi. Dal che si desumeva che la volontà di perseguire qualche esponente di Lotta continua degli anni 70 veniva da molto lontano, appunto ben prima delle “rivelazioni” di Marino.

Di molte incongruenze della versione di Marino ha già scritto su l’Unità Guido Viale l’11 luglio scorso, e su tutto questo non intendo ritornare. In linea di principio, si ritiene che una condanna dovrebbe essere comminata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Nel “caso Sofri” con tutta evidenza questo non è avvenuto: prima due condanne, poi annullate dalla Corte di cassazione addirittura “a sezioni unite”, poi un secondo processo di appello con una assoluzione (resa vana dalle motivazioni “suicide” scritte nella sentenza dal giudice dissenziente), poi anche l’assoluzione con la sentenza “suicida” annullata dalla Cassazione, quindi un terzo giudizio di appello, con una condanna comminata da un presidente che si era dichiarato colpevolista prima ancora del processo, poi una conferma definitiva della Cassazione, e da ultimo un giudizio di revisione (a Venezia) che non ha modificato la condanna (ma con una sentenza che, incredibilmente, auspicava la grazia per i condannati…). Davvero una condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”?

Tuttavia, purtroppo, la condanna definitiva c’è stata, sia pure molto e da molte parti discussa e criticata, ma ormai da lungo tempo irrevocabile. Quindi non di questo oggi si tratta, ma del fatto che a suo tempo, per dichiararsi colpevolista ben prima della condanna, Luciano Violante aveva invocato la validità accusatoria di una “fonte non ostensibile”, che infatti non è mai stata esibita e non è quindi entrata nel processo, ma che ha avuto una influenza indiretta e grave nel confermare l’iniziale ipotesi accusatoria (basata in realtà non sui fatti, ma sulle “rivelazioni” di Marino, accettate anche quando contradditorie e non confermate nella realtà).
Dispiace dirlo, soprattutto sulle pagine di questo giornale di antica tradizione, ma che in rapporto a questa vicenda ci fosse stata anche l’influenza, o l’interferenza persino anticipata, di qualche esponente del Pci di allora (compreso il difensore comunista di Marino, ma non solo), è… “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Anche il mio caso personale lo conferma.

Nel 1983, finita la mia prima legislatura da “indipendente” nei radicali di allora, il segretario regionale del Pci della Lombardia mi propose la candidatura come “indipendente” nel collegio di Milano per la Camera dei deputati, e, nel farlo, mi citò alcuni autorevoli esponenti nazionali del Pci che avevano espresso anticipato consenso a tale proposta nei miei confronti. Tuttavia, pochi giorni dopo, con grande imbarazzo, tale proposta di candidatura venne ritrattata. Non avevo da parte mia chiesto nulla al riguardo, e quindi incassai la ritrattazione senza recriminazioni (neppure successive). Ma, passato qualche giorno ancora, un esponente dell’allora Direzione nazionale del Pci, col quale avevo ottimi rapporti di confidenza, mi rivelò riservatamente che in Direzione nazionale Ugo Pecchioli si era opposto alla mia candidatura, minacciando in caso contrario le sue dimissioni, perché io nel prossimo futuro avrei potuto essere indagato per terrorismo (ed eravamo nel 1983…). Durante la Bicamerale D’Alema, nel 1998, in una intervista a Repubblica io rivelai questo singolare episodio, e nessuno replicò, salvo che il segretario regionale del Pci nella Lombardia del 1983 confermò la candidatura prima proposta e poi ritirata, senza tuttavia rivelarne le motivazioni.

Personalmente non avevo mai avuto occasione di parlare esplicitamente con Luciano Violante del “caso Sofri”. Entrambi avevamo fatto parte dal 1979 al 1983, dall’opposizione, della Commissione giustizia della Camera, e avevamo anche partecipato a qualche dibattito sugli “anni di piombo” che erano drammaticamente in corso. Molto dopo, nel 1996 Violante era stato eletto presidente della Camera dei deputati, all’epoca dell’Ulivo di Prodi, e, fino al 2001, io avevo fatto parte per i Verdi del suo Ufficio di presidenza, con una collaborazione positiva. Nel 2006-2008 ho inoltre fatto parte della Commissione affari costituzionali della Camera, da lui con efficacia presieduta. E ricordo tutto questo perché non ho alcun motivo personale di risentimento nei suoi confronti, avendo sempre collaborato con reciproco rispetto. Tuttavia, la vicenda della “fonte non ostensibile” per motivare la colpevolezza di Adriano Sofri mi ha sempre lasciato perplesso e allibito, anche se tutto questo risale a davvero moltissimi anni fa. Ma Sofri, con la lettera a Merlo, gli aveva ora offerto una occasione davvero ideale (“siccome si fa tardi”, per ragioni anagrafiche di entrambi) per un chiarimento “postumo”, che comunque non avrebbe potuto avere più alcun riflesso su una vicenda giudiziaria chiusa definitivamente da moltissimo tempo. Questa occasione Luciano Violante non l’ha saputa o voluta cogliere, e questo sinceramente mi dispiace, perché farlo con lealtà e trasparenza gli avrebbe fatto onore, a prescindere dalle sue opinioni “colpevoliste” (opposte alle mie) di allora e di oggi. Una vicenda giudiziariamente chiusa, ma politicamente (e moralmente, in quanto ad etica pubblica) ancora aperta, dunque.

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