Sei angolazioni e molti drammi per spiegare la vendita di Repubblica, senza fingere sorpresa

Dicembre 17, 2025 - 06:00
 0
Sei angolazioni e molti drammi per spiegare la vendita di Repubblica, senza fingere sorpresa


Come tutti quelli che lavorano coi giornali, ho avuto nelle ultime settimane molte conversazioni a tema: vendita di Gedi. Uno di quei temi che, appunto, appassionano solo chi fa i giornali.

Dipende dal fatto che i lettori non esistono più, certo, ma anche parlandone da vivi (dei lettori, e dei giornali) escludo che medici e avvocati e netturbini si sarebbero appassionati a chi fosse il proprietario del giornale che leggevano.

C’è una leggenda che sento raccontare da trentacinque anni, e che da trentacinque anni mi fa ridere con le lacrime. L’ambientazione è quella d’un’assemblea di redazione furibonda perché Eugenio Scalfari ha venduto le sue quote societarie a Carlo De Benedetti. Dice la leggenda che a un certo punto un tizio, che nel secolo successivo sarebbe diventato quello che fa il servizio in chiusura del programma televisivo “Otto e mezzo”, dica a una tizia, che nel secolo successivo sarebbe diventata la seconda moglie di Eugenio Scalfari, qualcosa come: taci tu, con tutti i soldi che vi siete intascati. Ogni volta che ci penso e rido, mi chiedo se farebbe ridere la mia dermatologa o il mio barista. Secondo me no.

Sono quindi settimane che cerco di capire se esista una chiave non da addetti ai lavori con cui raccontare la vicenda in corso, riassumibile in: il figlio di quello che vedeva lanzichenecchi su un treno estivo ha deciso di disfarsi di quell’ingombro che sono i giornali di sua proprietà, pare che Repubblica la vogliano comprare certi greci, la Stampa non si capisce bene, e poi ci sono le incognite di tutti quei canali con cui si sentivano moderni in comune tra le testate (per esempio La zampa) e che adesso non si sa a chi vadano in carico, un po’ come l’orrido tavolino rotondo nell’eventuale divorzio degli amici dei protagonisti in “Harry ti presento Sally”.

La vicenda la si può vedere da molte angolazioni. Quella della sindrome di Stoccolma: se, come ripetono tutti, John Elkann è il peggior editore del mondo, perché a Repubblica non sono lieti di disfarsene? E perché alcuni (pochi) scrittori italiani d’un certo prestigio continuano a scrivere su un giornale che ha smesso non solo d’essere rilevante ma pure di pagare decentemente? Sembrano noialtre che a vent’anni inseguivamo fidanzati brutti e pure spilorci ma che ci eravamo convinte fossero l’amore della nostra vita.

O l’angolazione “Pretty Woman”. In un’interessante intervista che ha dato a Salvatore Merlo per il Foglio, Carlo De Benedetti ha sintetizzato una cosa che dicono tutti di John Elkann: «Una volta fatto l’investimento, John non sa far fare fortuna alle aziende». Altri la formulano come: è molto bravo a far soldi ma del tutto incapace di produrre cose. Quindi perfettamente figlio di questo tempo in cui i soldi si fanno con l’immateriale, dalle criptovalute in su e in giù, ma anche figlio del primo tempo di “Pretty Woman”, prima che l’arco narrativo di redenzione trasformasse Richard Gere da uno che faceva soldi demolendo le società e vendendone i pezzi in uno che voleva costruire (però era il 1990: esistevano le fabbriche, mica i server).

Ma anche l’angolazione di Calenda, la Cassandra che ci possiamo permettere, che diceva da anni che gli Elkann si erano comprati Repubblica solo per garantirsi il silenzio di quel che rimaneva d’un giornale di sinistra sul loro disfarsi delle fabbriche dopo essersi presi tonnellate d’incentivi statali, e che poi l’avrebbero mollata, e nella miglior tradizione epica nessuno l’ha preso sul serio.

La mia sempre preferita angolazione del declino delle élite. Qualche giorno fa si è sposata Asia Agnelli, detta Azzi, che chi leggeva i rotocalchi negli anni Novanta ricorda tremesenne cui morì il padre, Giovannino Agnelli, designato gestore degli affari di famiglia che però morì trentatreenne, lasciando il tutto in balìa della generazione successiva (John Elkann è nato solo dodici anni dopo Giovannino, ma bastano a fare di lui l’esponente d’un altro mondo, in cui l’Elkann che a primavera compirà cinquant’anni è ancora considerato un ragazzino che sbaglia perché i grandi gli hanno dato responsabilità più grandi di lui).

O l’angolazione del declino dei giornali di tutto il mondo: due settimane fa non avevo ancora finito di mandare ad amici indignata foto di pagine di Robinson, inserto teoricamente culturale di Repubblica, con dei giochini che erano una versione per rimbambiti della Settimana Enigmistica, quando ho visto il Sunday Times. Quello inglese, quello al quale pago volentieri un abbonamento, quello sempre pieno di roba da leggere. Aveva un inserto di 48 pagine (cioè: quanto la foliazione totale d’un giornale italiano), sponsorizzato dalle poste inglesi. “Santa’s extra nice list: is your child on it?”: la lista dei bambini buoni per Babbo Natale. Dentro c’erano ventunomila e novecentoventotto nomi, inviati dai genitori (o, specifica l’elzeviro di Babbo Natale ivi contenuto, da zii o nonni) che volevano far vedere ai loro puccettoni non che erano sul giornale (che i puccettoni non sanno cosa sia) ma nei pensieri di Babbo Natale. Di fianco a ogni nome c’era l’età, e io quindi mi sto chiedendo da giorni se Poppy Alexander, 15 anni, creda davvero a Babbo Natale, e se possiamo aspettarci che a 45 sia tanto meglio di John Elkann. (Ci sono anche sedicenni, nella lista; sui maggiorenni devono aver messo il veto per scelta giornalistica).

Ma la chiave interpretativa che mi sembra più interessante la fornisce un varietà del sabato sera americano. Sabato scorso, “Saturday Night Live” aveva due notevolissimi sketch zuppi di spirito del tempo. Uno puntava sulle reazioni orripilate che avremmo se il wrapped, il giochino di fine anno con cui Spotify ci svela per quante ore abbiamo ascoltato Joni Mitchell e per quante Marcella Bella, lo facessero quelli che ci portano il cibo a domicilio, svelandoci che nel 2025 abbiamo speso migliaia di euro in pollo fritto.

L’altro, i quattro lettori di Repubblica di cui possiamo parlare da vivi avranno pensato fosse un’idea del loro giornale, che tre settimane fa aveva pubblicato un compitino intitolato “Pensavi fosse romantico, invece era soltanto un maschio performativo”. Scritto – sul giornale sul quale una volta scrivevano Alessandro Baricco o Umberto Eco, Alberto Arbasino o Beniamino Placido: dio, che nostalgia del patriarcato – da Edoardo Prati, senza dichiarare l’ispirazione: un trend di TikTok (ognuno ha la Pléiade che può permettersi).

Ci spiegava il compitino di Prati che questi uomini «mettono la matita nera sotto gli occhi, utilizzano borse di tela, leggono i libri di Michela Murgia o Judith Butler e occasionalmente bevono il matcha. Il problema, ed è il motivo per cui è scoppiata la discussione, è che i suddetti ragazzi non adottano questi comportamenti perché davvero credono nelle cause femministe o perché desiderano decostruire l’estetica patriarcale del “macho”, ma solamente per riuscire a conquistare di più. A detta di molte persone l’atteggiamento di questi uomini può essere considerato predatorio».

Edoardo Prati ha ventun anni, e non ha avuto il tempo di apprendere niente; neanche che gli uomini, qualunque cosa facciano, la fanno per favorirsi l’accesso sottopanni alle donne, e con «qualunque cosa facciano» s’intendono tutte le scelte, da quelle professionali a quelle politiche a quelle estetiche. Senza mirare al contenuto delle mutande femminili scelgono solo la squadra di calcio per cui tifare, e solo perché la percentuale di «non te la do perché non sei romanista» è invero bassina. Prati ha ventun anni, ma chi lo pubblica che scusa ha?

Comunque, poi è arrivato “Bachelorette party strippers”, lo sketch del sabato sera che era la versione colta dell’articolo di Prati (che essendo oltre che ventunenne pure semicolto s’illude di darsi un tono citando Judith Butler).

C’era più rigore filologico nei due spogliarellisti che, convocati all’addio al nubilato di sinistra da un’amica della sposa che li ha trovati su un forum dedicato a Sally Rooney, chiedono il consenso prima di varcare la soglia, hanno in mano una copia di “Una vita come tante” (che specificano essere scritto da «una donna di colore»), e «Zohran» tatuato sullo stomaco, e come massimo gesto seduttivo si mettono a piangere, «è che stavo pensando alla Corte Suprema», più rigore filologico nel fare ciò che Repubblica ha smesso di saper fare con la morte di Edmondo Berselli, e cioè dare al ceto medio riflessivo la spietatezza per cui era disposto a pagare e non le conferme che ottiene gratis dai social, più efficacia in quattro minuti di sketch d’un varietà neppure dei migliori, che in quattro annate di Repubblica.

Me li vedo, quelli di Repubblica, che protestano che un programma comico e un giornale non si possono paragonare, invece di ringraziarmi per non aver citato come altezza cui dovrebbero tendere le vignette che ha pubblicato il New Yorker sulla fiera d’arte di Miami, tra collezionisti che comprano opere da due milioni e mezzo e scroccano i gadget, visitatori che dopo essersi posizionati come semicolti postando foto delle opere possono finalmente andare a cena, e opere che ambiscono a diventare virali quanto la banana di Cattelan: si chiama critica culturale, forse ve ne ricordate, un tempo la facevate anche voi, prima di appaltare le pagine culturali alle booktoker.

Ci sono molte angolazioni e anche molti drammi, perché è ovvio che chiunque si accolli il carrozzone di Repubblica vorrà ridurre il numero dei giornalisti, ed è evidente che in un settore irreversibilmente non florido chi non è bravissimo difficilmente troverà un altro lavoro. Oltretutto, senza il sottopancia “Repubblica” che dà illusione d’autorevolezza, c’è il caso che anche gli importi dei contratti per le ospitate televisive calino.

Insomma, è un problema occupazionale, ed è quindi giusto che se ne parli. Se fosse il caso di preoccuparsi prima, non per il tema «oddio chi sarà il nuovo proprietario» ma per quello «oddio ma non sarà il caso di fare dei giornali meno brutti», è una domanda che ci faremo in un altro momento.

L'articolo Sei angolazioni e molti drammi per spiegare la vendita di Repubblica, senza fingere sorpresa proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News