Favino, Prodi e la politica italiana nell’epoca della crisi degli ascolti

Ha detto non so dove Pierfrancesco Favino che «“Bartali” ha fatto dodici milioni: due anni dopo, un successo era sette milioni» e Guia Soncini, da cui prendo la citazione, aggiunge: «“Gino Bartali – L’intramontabile” andò in onda a marzo del 2006: quasi vent’anni dopo, un successo è tale con meno della metà degli spettatori». In verità, la stessa citazione di Favino se l’era già giocata almeno in un altro articolo di qualche giorno fa (ma sospetto anche in più d’uno) fatto sta che a me la lampadina si è accesa solo adesso, leggendo la data: 2006. Alle elezioni del 2006 un successo era 19 milioni di voti, quelli presi dal centrosinistra guidato da Romano Prodi (e non era neanche un gran successo, perché in realtà fu praticamente un pareggio, ma lasciamo stare i dettagli). Alle ultime politiche il centrodestra guidato da Giorgia Meloni ha preso 12 milioni di voti. Dopo l’ultima tornata di elezioni regionali, segnate da un’affluenza al minimo storico (in media circa il 43 per cento), Elly Schlein ha dichiarato che il conteggio dei voti assoluti dimostra le concrete possibilità di vittoria del centrosinistra al prossimo giro. In pratica, nella politica di oggi il successo – sia pure solo immaginario, autocertificato e autopercepito – è sceso già a poco più di 4 milioni di voti.
Mi sembra evidente il nesso tra il risultato di Bartali e quello di Prodi, e non solo per la comune passione per il ciclismo. Il crollo degli ascolti è lo specchio del crollo dell’affluenza, la frammentazione dell’offerta culturale (per usare dei paroloni) coincide perfettamente con la frammentazione dell’offerta politica (per usare un’espressione non meno esagerata, per quel che passa adesso il convento): non ci sono più né sceneggiati da dodici milioni di spettatori né coalizioni da diciannove milioni di voti, e se è per questo nemmeno quotidiani da cinquecentomila copie (come ai tempi del sorpasso di Repubblica sul Corriere, che ora non arrivano alla stessa cifra nemmeno sommati), e il motivo, probabilmente, è lo stesso per cui non ci sono più le mezze stagioni: perché le cose passano. La domanda giusta, o almeno quella che incuriosisce me, non è dunque perché ciò sia accaduto, ma come dovremmo comportarci di fronte a questa nuova realtà.
A proposito dell’offerta culturale, commentando la ferale notizia di un imminente rifacimento di “Amadeus” (il film di Miloš Forman, non il conduttore) in forma di sceneggiato, su Sky a fine mese, Soncini fa alcune osservazioni che mi paiono molto condivisibili, sui modi migliori e sui modi peggiori di coinvolgere il pubblico giovanile rincitrullito dall’algoritmo, ma anche perfettamente applicabili al corpo elettorale: «Le dodicenni che guardavano volentieri “Amadeus” lo guardavano volentieri perché il mondo non era accovacciato come un genitore montessoriano alla loro altezza: erano le dodicenni a sollevarsi sulle punte dei piedi da spettatrici di cose che le facessero sentire grandi, non i genitori che si facevano piacere i consumi culturali per bambini». Mi illudo di sicuro, ma continuo a sognare un politico, un partito, uno schieramento che un giorno decida finalmente di alzarsi in piedi, e comportarsi da adulto, e soprattutto di trattare da adulti gli elettori. Chissà se mia figlia riuscirà mai a vederlo.
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