La putinizzazione del regime georgiano richiede una forte risposta europea (e italiana)

Dicembre 15, 2025 - 10:07
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La putinizzazione del regime georgiano richiede una forte risposta europea (e italiana)

In Georgia, ormai, la parola «deriva» non descrive più nulla. È un termine che rassicura le cancellerie occidentali e tradisce chi, nelle strade di Tbilisi, continua a rischiare tutto per un’idea molto semplice: essere parte dell’Europa, far coincidere un’appartenenza ideale – culturale, storica – con un’adesione formale a una comunità fondata sullo stato di diritto e sulla tutela dei diritti. La regressione antidemocratica non è più un rischio: è un fatto compiuto, tangibile e documentabile.

Lo attestano non solo le testimonianze sulle violenze in strada, ma la stessa esistenza di oltre cento prigionieri politici, come ricostruito dal dossier “I prigionieri politici in Georgia: un affronto allo Stato di diritto”, presentato lo scorso diciannove novembre da Europa Radicale a Roma, nello spazio Europa Experience – David Sassoli. Non si tratta di una denuncia retorica, bensì della cronaca di una trasformazione del sistema politico georgiano: oppositori, attivisti, figure civiche e giornalisti vengono incarcerati, processati sommariamente, privati delle garanzie fondamentali e trattati come nemici dello Stato.

Emblematico è il caso di Mzia Amaglobeli, prima giornalista riconosciuta come prigioniera di coscienza nella Georgia post-sovietica, condannata a due anni di carcere in circostanze che numerose organizzazioni per i diritti umani hanno definito politicamente motivate.

Il quadro che emerge, ogni giorno più nitido nel suo portato repressivo, evoca la prospettiva terribile di una Bielorussia caucasica: un esito politico che solo la diplomazia europea, con il suo lessico di velluto, finge di non vedere.

Le rivelazioni del recente documentario della BBC sull’uso di agenti chimici da parte della polizia georgiana – in particolare l’impiego del camite, un composto risalente alla Prima guerra mondiale, miscelato all’acqua degli idranti contro le centinaia di manifestanti che da trecentottanta giorni occupano Rustaveli Avenue – non sono un incidente né una deviazione improvvisa. Sono la conferma di un metodo.

Da anni la polizia è stata dotata di dispositivi antisommossa sempre più militarizzati: gas lacrimogeni ad alta persistenza, proiettili non letali con effetti neurologici e, ora, idranti modificati. Un anno fa, chi scrive – con Europa Radicale – aveva denunciato l’adozione dei gas GL202 prodotti dalla brasiliana Condor; sembrava già allora un salto inquietante.

Oggi sappiamo che la realtà è peggiore: ustioni cutanee, difficoltà respiratorie, tachicardia e disturbi protratti per settimane in decine di manifestanti. E mentre medici, ricercatori e organizzazioni per i diritti umani raccolgono testimonianze e dati sempre più robusti, le autorità rispondono con il repertorio classico dei regimi che fondano il proprio potere sulla menzogna: negazioni categoriche, totale assenza di trasparenza, accuse di disinformazione rivolte non solo alla BBC, ma a chiunque sollevi dubbi.

In parallelo alla repressione del dissenso sul campo, il Parlamento controllato da Sogno Georgiano ha approvato una legislazione che, di fatto, abolisce il diritto di manifestare. È un capolavoro di ingegneria repressiva: multe insostenibili per un cittadino medio; arresti amministrativi estesi a settimane; infrazioni minime trasformate in reati penali; spazi pubblici recintati da norme costruite per impedire qualsiasi forma di protesta, prima ancora che si verifichi.

È il modello putiniano già esportato altrove, a cominciare dalla Bielorussia: non reprimere la protesta quando esplode, ma soffocarne in anticipo la possibilità. Non colpire il dissenso quando si manifesta, ma impedirgli di respirare. Intanto, i media indipendenti vengono chiusi o strozzati economicamente, i giornalisti picchiati in strada da reparti antisommossa sempre più politicizzati e funzionari pubblici vengono licenziati per un semplice post a favore dell’adesione all’Unione Europea.

Le parole dell’ex presidente Salome Zourabichvili – secondo cui l’ultimo anno è stato segnato da «repressione sistemica, violenza, arresti, degradazione della dignità umana» e dal tentativo di trasformare il Paese in un regime totalitario «in stile russo» – sono la diagnosi più lucida del sistema in cui la Georgia sta precipitando. E il fatto che provengano da una figura istituzionale, non da un attivista, ne amplifica il peso politico.

Il rischio, ora, è la lenta, silenziosa, inesorabile dissoluzione della società civile: la perdita della soggettività politica dei cittadini. Se manifestare diventa impossibile, se informare diventa pericoloso, se sostenere l’Europa diventa motivo sufficiente per perdere il lavoro, allora le elezioni – come insegna Minsk – non sono più un rito democratico, ma la scenografia di un potere già deciso altrove. Il processo è iniziato. Arrestarlo è ancora possibile, ma solo se lo si chiama con il suo nome.

Il caso Georgia pone quindi una sfida politica diretta all’Unione Europea e all’Italia. Non si tratta più di valutare se sostenere riforme democratiche: si tratta di affermare chiaramente che la detenzione di prigionieri politici, la criminalizzazione del dissenso e l’impiego di tecnologie di controllo della folla sono incompatibili con i valori europei. I prigionieri politici sono il termometro della democrazia: il loro numero indica che ciò che un tempo veniva letto come tensioni interne è oggi un progetto deliberato di controllo autoritario.

Finora, le risposte europee sono state ambigue: dichiarazioni di preoccupazione, richiami generici allo stato di diritto, richieste di indagini. Questo linguaggio non basta. Occorre invece una risposta diplomatica e politica seria, articolata e coerente, che ricollochi stabilmente la Georgia sul sentiero dei diritti e rifiuti ogni forma di tolleranza – esplicita o implicita – verso la repressione.

L’Italia, per storia e tradizione nel sostegno al diritto come principio fondamentale, ha la responsabilità di guidare una nuova fase di chiarezza: non solo condannare, ma agire per la liberazione dei prigionieri politici, per l’apertura di canali di monitoraggio internazionale indipendenti, per l’immediata sospensione delle forniture di equipaggiamenti repressivi e per un esercizio costante di pressione diplomatica su Tbilisi.

La questione non è più teorica né confinata agli ambienti politici: riguarda il destino di una società che lotta per non essere spenta, che continua a rivendicare la propria appartenenza all’Europa e che vede nella difesa dei diritti civili e politici l’essenza stessa della propria aspirazione democratica. La risposta europea, e in particolare italiana, non può essere simbolica o tardiva. Deve essere politica, determinata e coerente con i valori fondanti dell’Unione che la Georgia dichiara di voler condividere.

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Redazione Redazione Eventi e News