Fenomenologia dell’ombrello, da emblema regale a segno della rispettabilità borghese

Dicembre 6, 2025 - 04:00
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Fenomenologia dell’ombrello, da emblema regale a segno della rispettabilità borghese

James Smith & Sons fu fondato nel 1830: una data notevole, perché è all’incirca in quegli anni, a detta dello storico dell’ombrello T.S. Crawford, che la produzione di ombrelli divenne un investimento sostenibile.

Anzi, gli anni trenta dell’Ottocento furono un decennio chiave per la moda in generale. In Victorian Fashion Accessories («Accessori di moda vittoriani», 2012) la storica della moda Ariel Beaujot identifica due importanti fattori che a partire da allora contribuirono a plasmare il corso della storia britannica: la «solidificazione» del ceto medio e il conseguente aumento dei consumi.

Gli oggetti di lusso che in precedenza erano appannaggio degli ultraricchi furono democratizzati con la messa a punto di imitazioni più economiche, ma comunque di alta qualità, e ostentati come segni di prestigio e raffinatezza. La piccola borghesia li usava per sottolineare lo scarto dalla classe operaia; più specificamente, le donne li utilizzavano per sfoggiare le entrate dei mariti. Laddove un tempo lo sperpero di denaro in oggetti frivoli era considerato un atto di corruzione morale – un’altra prerogativa degli aristocratici – adesso era inteso sempre di più come un vantaggio per la società poiché foraggiava la produzione e generava posti di lavoro.

Questa democratizzazione si rifletté anche sui progressi legati agli ombrelli: via via che la domanda di ombrelli saliva alle stelle, i venditori ambulanti agli angoli delle strade furono sostituiti da aziende familiari e piccoli produttori. I telai fragili e pesanti fatti di stecche di balena tipici dei primi design furono gradualmente sostituiti – grazie a quello che Sangster definì «il più importante miglioramento mai introdotto nella fabbricazione di un Ombrello»– dal telaio Paragon del signor Fox, una leggera struttura in acciaio ispirata all’architettura di un ponte.

Nel 1851 William Sangster e suo fratello John furono premiati alla prima Esposizione universale per il loro uso pionieristico della lana di alpaca (o «pecora peruviana»,come la chiamava Sangster) come sostituto delle fodere in seta e cotone utilizzate fino a quel momento, che erano costose (seta), ingombranti (cotone) e non abbastanza durevoli (entrambe). Nel 1855 avevano già venduto quasi quattro milioni dei loro articoli fatti con telai Fox e calotte d’alpaca.

Ormai l’ombrello si era saldamente affermato come un segno distintivo. «[È] lo sfoggio abituale dell’ombrello» scrive Robert Louis Stevenson in un vivace saggio breve intitolato La filosofia degli ombrelli (1871) «a essere il vero marchio della Rispettabilità. L’ombrello è diventato l’indice riconosciuto della posizione sociale.»

Nel suo racconto di viaggio Wild Wales («Galles selvaggio», 1862) George Borrow scrive: Chi mai dubiterebbe della tua rispettabilità, ammesso che tu abbia un ombrello? Entri in un pub e chiedi un boccale di birra e il locandiere te lo piazza davanti con una mano senza tirare fuori l’altra per i soldi, perché vede che hai un ombrello e di conseguenza un patrimonio. E chi è quell’uomo rispettabile che, casomai lo raggiungessi per strada e iniziassi a parlargli, si rifiuterebbe di fare due chiacchiere, ammesso tu abbia un ombrello? Nessuno. L’uomo rispettabile vede che hai un ombrello e ne deduce ragionevolmente che non intendi derubarlo, perché i ladri non hanno mai l’ombrello. Un ombrello è come una tenda, uno scudo, una lancia e un lasciapassare. L’ombrello va annoverato tra i migliori amici dell’uomo.

All’epoca di Borrow l’ombrello era ormai entrato a fare parte del codice di abbigliamento britannico: di solito i gentiluomini si munivano di un «ombrello da città», quello che Crawford descrive come un «bastone arrotolato stretto e rivestito di seta immacolata che faceva da scettro alla corona‐bombetta».

Crawford non fa riferimento a corone e scettri alla leggera. Di fatto, gli ombrelli hanno una lunga storia di eccellenza ben più antica dei britannici. Più di tremila anni fa i monarchi dell’antico Egitto e dell’Assiria li utilizzavano per proteggersi dal sole. Charles Dickens (forse l’esperto di ombrelli più entusiasta della storia della letteratura) pubblicò un saggio di George Dodd sugli ombrelli nella sua rivista settimanale, Household Words («Termini domestici»), in cui si fa riferimento a un’immagine tebana raffigurante una principessa etiope «che viaggia in un carro cui è attaccato un ombrello o un parasole che somiglia molto all’ombrello da calesse che il signore e la signora Smith si portano dietro per le gite della domenica nella foresta di Epping».

Nel 1966, viaggiando nell’ex regno di Dahomey (l’attuale Benin), Sir Richard Burton notò che ogni nuovo capo riceveva un ombrello «che era usato figurativamente per denotare il capo stesso, tant’è che “sette ombrelli sono caduti” significava che sette capi erano stati uccisi». L’Etiopia, il Marocco e l’Africa occidentale erano noti per l’uso di ombrelli regali, in particolare il Marocco dove per secoli rimasero appannaggio soltanto del sovrano e dei suoi parenti stretti. Un vecchio detto marocchino allude così al lusso offerto da questo oggetto: «Il proprietario di un ombrello va e viene come vuole, sia al sole che all’ombra».

Gli antichi affreschi delle grotte di Ajanta (200 a.e.v.‐550 e.v.) riflettono la lunga e illustre storia dell’ombrello in India. Come in molti altri paesi, all’epoca gli ombrelli erano perlopiù associati alla regalità. Nel 1905 Samuel Purchas scriveva, riferendosi al Gran Mogol, che «di kittasols regali per fargli ombra ne servono venti. Nessuno nel suo impero oserebbe mai averne uno per farsi ombra tranne lui».

Soltanto ai monarchi (e anche in quel caso solo in occasioni speciali) era permesso di usare il navadanda: un parasole scarlatto e dorato a sette strati, cinto da trentadue fili di perle, con un telaio d’oro zecchino, un manico di rubini e un pomello di diamante. I rajah di Cochin esigevano che i francobolli includessero la sagoma di un ombrello.

Durante il suo soggiorno in India nel 1887, il principe del Galles era sempre schermato da un ombrello enorme, non tanto per ripararsi dal caldo quanto per la forte associazione tra ombrelli e sovranità insita nell’immaginario del popolo indiano. Come spiega Ariel Beaujot, senza l’ombrello il principe Edoardo sarebbe passato per «un turista occidentale qualunque anziché per il futuro imperatore della nazione». In Birmania, il re dell’antica capitale Ava era chiamato «re degli elefanti bianchi e signore dei ventiquattro ombrelli».

Un monarca del xiii secolo scelse il suo successore disponendo in cerchio i cinque figli e lasciando cadere un ombrello al centro nella speranza che cascasse in direzione del più meritevole. Stando a Crawford, il sovrano risultante, il principe Oksana, era conosciuto come «il re messo sul trono dall’ombrello».

In Cina, i reperti a testimonianza dell’utilizzo di questo oggetto risalgono a millenni fa. Sono stati scoperti degli ombrelli pieghevoli nella tomba del condottiero Wang Kuang risalenti al 25 a.e.v., un fatto che, a saperlo, probabilmente avrebbe mortificato gli ombrellai britannici del Settecento alle prese con tecnologie simili. Durante la dinastia Ming (1368‐1644) vigeva un sistema di galateo degli ombrelli di stampo classista eccezionalmente dettagliato: il governatore generale aveva due grandi ombrelli di seta rossa; i quattro mandarini più illustri portavano dei modelli neri con fodera di seta rossa a tre balze; alla piccola nobiltà erano concesse due balze; i gentiluomini dei due ranghi più alti avevano degli ombrelli rossi con il pomello di latta a forma di zucca; i gentiluomini delle due classi a seguire avevano lo stesso tipo di ombrello, ma con il pomello in legno dipinto di rosso; infine, il quinto rango di gentiluomini aveva un ombrello di stoffa azzurra a due balze con il pomello dipinto di rosso. La gente «comune», cui non erano concessi ombrelli di stoffa né di seta, doveva accontentarsi di robusti ombrelli di carta.

In Giappone, l’uso degli ombrelli tra i nobili fu regolato da una serie di norme complesse su colore e rango fino alla fine del Seicento, quando i cittadini benestanti iniziarono a utilizzare i wagasa: dei sottili ombrelli di carta e bambù ricoperti di lacca impermeabile. Presto i wagasa divennero molto popolari e tali rimasero fino a quando, verso la fine del xix secolo, non fecero capolino i primi ombrelli occidentali. Il loro successo fu così durevole che la manifattura di modelli tradizionali divenne un mestiere in via di estinzione.

Non ti scordar di me_Cover

Tratto da “Non ti scordar di me. Storia vera e immaginaria dell’ombrello”, di Marion Rankine. Traduzione di Ludovica Marani, Il Saggiatore, 16,00€, 200 pp.

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