Il medico che fece delle indagini una scienza e della prova uno strumento di giustizia

«Che cos’è questa polizia scientifica?» scrive Salvatore Ottolenghi a Roma nel 1904. E ancora: «La polizia, impegnata in una lotta quotidiana, deve essere in costante assetto di guerra». Da questa domanda (e da questa risposta) nasce un pezzo di Italia moderna, che Roberto Riccardi mette nero su bianco nel libro “Salvatore Ottolenghi. Inventore della polizia scientifica”, pubblicato da Giuntina nella collana in collaborazione con la Fondazione RUT.
Riccardi non è un biografo improvvisato. Ha frequentato territori difficili della memoria collettiva, e qui applica la stessa attenzione alle fonti e al contesto. «La sua creatura, la Scuola di polizia scientifica, non è stata solo ciò che il nome rivela. È stato il modo per costringere la giustizia a essere giusta». È questa la tesi centrale: non un aneddotico padre dei RIS, ma un riformatore che introduce nella macchina giudiziaria italiana una grammatica della prova.
Ottolenghi nasce ad Asti nel 1861, si laurea a ventitré anni, entra in orbita Lombroso ma presto se ne emancipa. I primi corsi di polizia scientifica, nel 1902, si tengono nel carcere di Regina Coeli: scelta che dice molto dell’uomo, convinto che la dignità carceraria sia parte della giustizia, non una postilla morale. Il libro è migliore quando abbandona la cronologia e s’infila nei casi che hanno fatto scuola. Girolimoni, lo Smemorato di Collegno, Matteotti. Qui Riccardi spiega la rivoluzione metodologica con parole chirurgiche: Ottolenghi traghetta «la delicata attività investigativa da un mestiere artigianale a una professione fondata sullo studio. Dal trionfo delle opinioni soggettive al paradiso del riscontro documentale e della prova tecnica».
Su questo sfondo, l’opera editoriale della collana Giuntina-Fondazione RUT assume un senso preciso: riportare in circolo figure e momenti che hanno costruito anticorpi civili. È una scelta che mette insieme storia e responsabilità pubblica, senza mitologia. Il volume ha ritmo, fonti e capacità di scelta. Non tutto è risolto: qualche passaggio indulge nella ricostruzione sentimentale, ma le citazioni originali tengono la barra dritta e fanno entrare nella testa di Ottolenghi, più che nella sua leggenda.
Nel 1930, al Congresso mondiale delle forze dell’ordine di New York, introduce il suo intervento con un semplice «I will show in the slide», frase che oggi diamo per scontata. È il dettaglio che riassume un’intera biografia: fare ordine, mostrare, verificare, spiegare. Ottolenghi muore nel 1934, prima delle leggi razziali. La moglie e i figli emigreranno in Argentina nel 1938. Alle sue spalle resta un metodo che ha cambiato la giustizia italiana dal basso, con la sola forza della conoscenza.
La collana Giuntina-Fondazione RUT, di cui questo volume fa parte, ha un merito semplice: restituire storia contemporanea usando la storia delle persone. Non memoria celebrativa, ma un lavoro che serve alle scuole, ai lettori e persino a chi quel sistema oggi lo abita nelle questure e nei laboratori.
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