Siamo quelli temprati a tutto, o i colpevoli del disastro attuale?

Novembre 29, 2025 - 08:00
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Siamo quelli temprati a tutto, o i colpevoli del disastro attuale?

E se tutte le analisi della società in cui viviamo, tutte le analisi che ogni giorno scriviamo e leggiamo, fossero sballate (lo sono), e lo fossero anche a causa d’un equivoco tassonomico? Equivoco che dipende, come quasi tutti i guasti del presente, dall’americanizzazione dell’occidente.

Quando ero giovane, i giovani si chiamavano appunto giovani. Ai tempi di mio padre «capelloni», ai miei neanche quello. Eravamo la generazione X ma non lo sapevamo: nessuno si avventurava in quell’americanata che era chiamare la gente con nomi che dipendevano non dall’età che aveva ma dagli anni in cui era nata.

Non successe neanche quando uscì il romanzo di Douglas Coupland che quella generazione la nominava nel titolo. Ci fu qualche articolo, ma non è che negli anni successivi nessuno di noi si sia mai sentito dire «tu che sei della generazione X».

Anche perché c’era il problema che c’è con tutte le generazioni, cioè con tutti i gruppi che pretestuosamente accomunano chi è nato quindici anni prima e chi quindici dopo: che da una certa età in poi le differenze si annullano e siamo tutti coetanei, ma negli anni Novanta essere della generazione X poteva voler dire avere trent’anni o averne quindici, che fino a questa disastrata epoca d’infantilizzazione degli adulti erano età molto diverse. Ci tenevamo a che le parole significassero qualcosa, e quindi, invece d’usare una tassonomia assurda, se volevamo parlare di quindicenni parlavamo di quindicenni, e se volevamo parlare di trentenni parlavamo di trentenni.

Adesso no, adesso è tutto generazione qua e generazione là, millennial e boomer, generalizzazioni con etichette kitsch, e ciò non aiuta la comprensione della realtà. Ieri sul Financial Times c’era un articolo sulla generazione Z che, poverina, non si può comprare casa e da quello dipende il declino dell’occidente.

«Non è che le precedenti generazioni s’impegnassero di più al lavoro perché allora i mestieri erano più appassionanti, è che sbattersi sul lavoro era un mezzo per arrivare a un fine. Se il premio di possedere una casa tua è fuori dalla tua portata, l’impegno appare futile». Avrei molte obiezioni a questa analisi, la principale delle quali è che neppure ai tempi miei, un secolo fa, i lavori che facevi appena cominciavi a lavorare ti permettevano di comprarti casa.

Si guadagnava meno di ora, anzi: nei giornali non ti pagavano proprio (gli apprendistati gratuiti di una volta farebbero venire l’ittero a una generazione che ritiene che gli stage debbano essere pagati), e il precariato non era un tema di conversazione. Alla Rai ti facevano lavorare non più di sei mesi l’anno, altrimenti avresti fatto causa dicendo che eri a tutti gli effetti una dipendente dell’azienda. Una regola di squisita inutilità: comunque chiunque facesse causa – per la gioia d’ottenere un’assunzione a tempo indeterminato in palazzi pieni d’amianto – la vinceva, e i disgraziati (tipo me) che a far causa non ci pensavano proprio dovevano trovare un secondo lavoro per quella parte dell’anno in cui la Rai ti teneva in fermo biologico, tipo trota d’allevamento (o forse il fermo biologico serve per quelle non d’allevamento? Sono impreparata in caccia e pesca).

Non so se ci sia mai stata una generazione che è stata in grado di comprarsi casa senza i soldi dei genitori, che essendo più vecchi e lavorando da più anni hanno sempre avuto più soldi dei figli giovani; ma io non ho un coetaneo che sia uno la cui prima casa sia stata comprata coi soldi del suo lavoro: o gliele hanno comprate i genitori, o i genitori ci hanno messo l’anticipo, e loro hanno pagato la rata del mutuo come avrebbero pagato l’affitto ma senza dover disporre di risparmi all’inizio.

Ma non divaghiamo. Il punto è che la generazione Z, hanno stabilito i sociologi (categoria che merita il 41 bis meno degli urbanisti ma quanto gli psicanalisti), è nata tra il 1997 e il 2012. Quindi il Financial Times si preoccupa che i tredicenni non siano proprietari immobiliari.

Liz Stone non so quanti anni abbia, è una comica americana che monologa sul suo essere della generazione X. La mia, ma sappiamo che non vuol dir niente. Potrebbe avere quarantacinque anni o sessanta. Dice che siamo una generazione senza sensibilità perché nessuno ci si è filato.

Racconta di quando esplose, nel 1986, lo Space Shuttle appena decollato, e a bordo oltre agli astronauti c’era un’insegnante e gli allievi in classe la videro esplodere in diretta e subito dopo dritti al compito in classe di matematica. È un’iperbole comica, ma è anche un racconto con un buco.

Se nel 1986 avevi undici anni, adesso ne hai cinquanta. Non sei meno emotivo della generazione Z perché sei stato temprato dalla vita e dall’educazione e dall’essere stata una generazione non cagata: lo sei perché sei un adulto. A trent’anni non sei un adulto (specialmente in questo secolo, che non ti manda in guerra o nei campi facendoti essere a trent’anni già un catorcio).

Tutti quelli che conosco che lavorano con gente di trent’anni (ma pure di quaranta) sono disperati per l’emotività e la fragilità e le paranoie assurde (chiedere di fare una telefonata viene accolto un po’ peggio di come Abramo accolse le indicazioni circa cosa fare di Isacco). Gli dici che un lavoro va fatto così e non cosà, e questi si mettono a piangere. I miei amici sbuffano, io sono solo preoccupata di quando gli oggi trentenni ci dovranno cambiare il pannolone, e sarà una cosa per loro troppo traumatica, si prenderanno un giorno di permesso per la salute mentale, e noi resteremo a marcire nei nostri escrementi.

Però, lo dico a Liz, non eravamo noi a essere speciali. Eravamo solamente gli ultimi, di una lunghissima tradizione che fin lì era la normalità, di una società che comportava una serie di caratteristiche che ora paiono assurde. Una gamma di abitudini che va da scopare (invece di mandarsi foto di organi genitali, attività la cui componente ludica mi sfugge ma è sicuramente un limite mio) a sentirsi fino a una certa età dire «parla quando sei interrogato».

Non è che noi fossimo resilienti o chissà che: è che il modo in cui vivi finché non scopri che si può vivere in un altro modo è la scontata normalità. È tutto quel che sai del mondo e della vita. Non c’erano i telefoni con la telecamera, non ci saremmo infilate una macchina fotografica nelle mutande per poi pagare a un estraneo lo sviluppo e la stampa delle nostre innominabilità: quindi la davamo in giro.

Non c’era un intero sistema mediatico impegnato a dirci che eravamo la generazione più sfortunata e infelice e vessata di tutti i tempi, quindi se ci dicevano che non potevamo avere un contratto che durasse dodici mesi prendevamo per buona quell’indicazione e cercavamo di imparare quel che potevamo in quei sei mesi in cui ci pagavano.

Non c’era la tassonomia generazionale quindi non pensavamo, a trent’anni, d’esser coetanei dei quindicenni. Si parla tanto, in questo secolo di ortodossia psicanalitica, di interrompere la catena dell’abuso, ma io temo che noialtri abbiamo interrotto una catena virtuosa. Siamo stati i primi a non dire ai figli di non rompere i coglioni coi problemi immaginari, a non dir loro che gli insegnanti avevano ragione e loro erano dei ciucci, a non dir loro che se vogliono far gli artisti vivranno nella migliore delle ipotesi in affitto perché i soldi per una casa non ce li avranno mai.

C’è una tesi secondo cui l’infantilizzazione estetica degli adulti di oggi dipende dalle università. Gli adulti si vestono come si vestivano all’università, i nostri padri si mettevano la giacca e la cravatta perché già all’università si vestivano da grandi, i nostri mariti no perché hanno avuto vent’anni durante il grunge.

Non vorrei fare l’ennesima analisi sballata del presente, ma se non fossimo la generazione che descrive Liz Stone, quella che è in grado di sopportare tutto, temprata dalla vita, dall’Aids, da Chernobyl, dagli anni di piombo, quella che non frigna perché ha visto di peggio, ma fossimo invece la prima generazione colpevole del disastro attuale, quella che preferiva farsi pagare l’affitto dai genitori perché la Rai mi fa lavorare solo ogni tanto, invece di trovarsi un lavoro vero come avevano fatto loro, quella che si veste da cretinetta anche a cinquant’anni, invece di smettere a una certa età di portare i pantaloni corti come hanno fatto quelli prima di noi, e quella che ha tirato su i figli più scemi della storia dell’uomo e ora dà la colpa alle etichette generazionali invece che a sé stessa?

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