Perché Mosca ci fa meno paura delle moschee

Dicembre 15, 2025 - 10:07
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Perché Mosca ci fa meno paura delle moschee

La democrazia è una «parola vuota», spara il fisico Carlo Rovelli, specialista di gravità quantistica e opinionista di gravità inaudite. Del resto, nell’Italia del ferro e del fuoco, come l’ha definita il Censis, il trenta per cento dei cittadini è convinto che le autocrazie siano più fighe delle democrazie. Secondo altri sondaggi, la maggioranza degli italiani ritiene che Volodymyr Zelensky debba cedere il Donbass senza rompere troppo i maroni a noi. E tanti applaudono Alessandro Di Battista quando dice che i russi non sono nostri nemici e che il riarmo dell’Europa è solo uno spreco di denaro. Ha ragione l’attivista ucraina Oleksandra Matvijchuk, premio Nobel per la pace duemilaventidue, che in un’intervista al Corriere ci accusa di «considerare la libertà come la possibilità di scegliere tra diversi tipi di formaggio al supermercato».

Altro che spesa intelligente: in materia di diritti umani e democrazia siamo degli analfabeti funzionali. Sarà la propaganda, il clima di guerra, saranno le nostre ossessioni, fatto sta che stiamo perdendo la trebisonda, tanto da arrivare a preferire Putin a Emmanuel Macron o a Ursula von der Leyen. O da non vedere la differenza tra Elon Musk e George Soros e sostenere anzi, senza scoppiare a ridere, che il padrone di X e di Tesla, poverino, sarebbe mal visto in Italia solo perché «non è di sinistra» (copyright Giorgia Meloni).

E allora proviamo a capire cosa ci rende così ciechi. I russi non sono nostri nemici? Certo, quando mai ci hanno torto un capello? I russi non fanno stragi al Bataclan o ai mercatini di Natale. Non ci svaligiano la villetta e non ci scippano in metropolitana, non stuprano «le nostre donne» o, meglio, stuprano sì a man bassa ma solo donne ucraine o di altra nazionalità e comunque lo fanno a casa loro. 

I russi non rompono le palle in corso Genova cercando di venderci libri di favole africane. Non dormono sulle panchine e non pisciano nei sottopassi. E comunque, quelli che vengono qui hanno il portafoglio pieno e fanno shopping nel quadrilatero della moda. Non scendono dai tank con la Z, ma dai furgoni neri di Uber, e nessuno li tratta come invasori. 

La difesa dei sacri confini, tanto cara alla presidente del Consiglio, riguarda la frontiera sud della Ue – le acque del Mediterraneo infestate dai barchini dei migranti. A invadere sono loro, i poveracci per lo più di carnagione scura, e sono loro che vanno impacchettati e spediti nel villaggio vacanze in Albania. Non certo i russi, con cui buona parte dell’imprenditoria italiana non vede l’ora di riprendere a fare affari (e tanti non hanno mai smesso). Ne riparliamo poi quando milioni di ucraini si riverseranno qui in fuga dal Donbas regalato a Putin.

Che volete, Mosca è lontana e non fa paura, le moschee invece sì – e tanta. A popolare i nostri incubi è lo spettro dell’Eurabia preconizzato da Oriana Fallaci tanti anni fa e ora sbandierato da Donald Trump, Marine Le Pen, Viktor Orbán e compagnia sovranista. Le donne in burka, i maschi barbuti con la cintura esplosiva, gli imam che ci vogliono imporre la legge islamica, il presepe rimosso per non dispiacere ai musulmani. 

Nessuno si accorge che zitti zitti, senza bombe e senza stragi, sulle ali dei droni, dei D’Orsi e degli Orsini, stiamo scivolando nell’Eurussia. Uno Stato di soggezione strisciante verso il Cremlino, che prova ogni giorno, e con crescente successo, a fiaccare la nostra fiducia nella democrazia, a intorbidare i nostri media con le fake news e a intralciare il gioco elettorale.

Non che la dominazione musulmana sia, a sua volta, un rischio da escludere a priori, ma non viaggia certo sulle gracili gambe degli Abdul che fanno i muratori a Bergamo o i tassisti a Oslo (in Italia la corporazione resiste con successo alla sostituzione etnica), semmai su quelle tonicissime e palestratissime degli emiri del Golfo, che comprano grattacieli e giornali (e presto politici e governi) a colpi di miliardi. Siete mai stati a Dubai? Ecco, preparatevi. Sarà quello il nostro destino, nel mondo distopico dei Putin e dei Trump, non certo l’Iran degli ayatollah. Ci divertiremo da morire: «figa e fatturato!» per dirla col Milanese Imbruttito. E pazienza se non ci faranno più votare. A noi la politica non interessa. È una cosa sporca, una perdita di tempo e infatti metà di noi già disertano le elezioni.

Basta che non ci tolgano le libertà a cui teniamo davvero. La libertà dalle tasse e dagli autovelox, per esempio. Libertà di farci la casetta abusiva a Ischia e di circolare in centro col diesel Euro-4. Libertà dalle auto elettriche, dalle pale eoliche, dai tappi di plastica che non si staccano e dagli altri diktat degli odiati eurocrati. Libertà di non vaccinarci, di non mandare a scuola i figli, di andare in pensione quando ci va, di mangiare carne di orso. Libertà di invadere il marciapiede coi tavolini del bar, di parcheggiare sulle strisce e nei posti dei disabili, di ancorare il motoscafo a un metro dalla spiaggia. Libertà di dare del negro e del frocio senza offesa per nessuno o di dire che i musulmani sono una razza inferiore e che gli spareremmo volentieri in bocca (Vittorio Feltri).

E fin qui siamo nell’ambito del pensiero libertario di destra. Quelli che sui social si definiscono «liberi pensatori» o «politicamente scorretti», nemici giurati della cultura woke. Se però ci spostiamo all’altro estremo, alla sinistra antagonista e propal, il quadro non è meno desolante. La democrazia liberale è soltanto una finzione, un comodo paravento del capitalismo, dell’Occidente colonialista, una parola vuota, come dice Rovelli. La Ue dei banchieri, peggio che andar di notte.

L’importante non è difendere le istituzioni democratiche: quel che conta è pronunciare almeno una volta al giorno la parola d’ordine «genocidio», che vale ormai come un’indulgenza plenaria e cancella tutti i peccati. Per cui, se Erdogan, un dittatore che tiene illegalmente nelle sue carceri da trenta a cinquantamila dissidenti, oppositori politici, giornalisti, scrittori e attivisti delle Ong, condanna Israele e dà lezioni di diritti umani al mondo, diventa uno dei nostri. Meglio di Starmer o di Merz.

Non siamo tenuti ad avere tutti la stessa idea di libertà o la stessa percezione del grado di libertà di cui godiamo. È naturale che chi produce o vende cose materiali abbia un’idea di libertà diversa da chi si guadagna da vivere manipolando concetti o parole, scrivendo libri o girando film. Ma forse vale la pena di ripassare la lezione di un grande maestro liberale. Ci sono situazioni – diceva Isaiah Berlin (1909–1997), citando una battuta falsamente attribuita a Dostoevskij – in cui «le scarpe valgono più di Puškin»: non per tutti la libertà individuale è la prima necessità. Ma bisogna intendersi sul significato di libertà. 

Berlin distingue tra libertà «negativa», come assenza di interferenze da parte di altri, del governo o dello Stato nell’attività di un individuo, e libertà «positiva», che invece riguarda la fonte dell’interferenza, che in un sistema democratico deve essere scelta dai cittadini. Il primo tipo di libertà, la libertà da, «non è incompatibile con alcune forme di autocrazia o comunque con l’assenza di autogoverno».

Un despota può lasciarmi libero di andare a duecento all’ora in autostrada o di non fare lo scontrino fiscale, salvo poi sbattermi in galera se oso criticarlo. Solo la libertà di, la libertà positiva dei regimi democratici, permette di controllare col voto, i media e la magistratura chi esercita il potere e di difendere con efficacia i diritti civili. Di essere dei cittadini «padroni di sé stessi», che decidono in prima persona e non subiscono le decisioni di altri. «Libertà non è star sopra un albero», cantava Giorgio Gaber. O in una casa nel bosco, o in un attico abusivo, o in un centro sociale tappezzato di bandiere palestinesi, mentre sulle nostre teste ronzano i droni di Putin.

L'articolo Perché Mosca ci fa meno paura delle moschee proviene da Linkiesta.it.

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