Timothée Chalamet, e gli attori costretti a definirsi top di gamma per farsi notare

Dicembre è un gran mese per coltivare il proprio complesso di superiorità come conversatori. No, non sto parlando dei pranzi natalizi con la famiglia, dove in confronto alle doti dialettiche di vostro zio voi siete i figli naturali di Simone de Beauvoir e Alberto Arbasino. Anche quelli, certo, ma arrivano dopo.
Prima, a dicembre, ci sono le campagne per l’Oscar. Funziona così. Se abbiamo una memoria da pesci rossi noi, figurarsi quelli che devono votare per un premio che ha sede in California. Quindi, da moltissimo tempo, i film che sono più papabili per venire premiati per un certo anno vengono fatti uscire quando l’anno è praticamente finito, a Natale. Così i votanti a dicembre vedono ovunque gli attori intervistati e c’è qualche speranza che a gennaio, quando devono scegliere i migliori, ancora se ne ricordino.
Naturalmente questo meccanismo ha un problema che tutti intuiamo: gli attori non sono esattamente gente con la parlantina. Sono pagati per dire parole pensate da altri, d’altra parte. Per un Clooney o un Favino che dicono solo cose intelligentissime e hanno scelto il mestiere di fare le facce perché sono cresciuti in anni in cui era un mestiere di grandi introiti e poca fatica, ce ne sono migliaia che sarebbe meglio non parlassero mai mai mai.
E questo ci porta allo scandaletto del giorno, che riguarda Timothée Chalamet, il quale poverino vive e opera in un mondo che non è più quello che era stato promesso a Favino e Clooney. Un mondo in cui essere famosi è un inferno e ogni tuo vicino di tavolo in ogni ristorante ha un telefono con su una telecamera. Un mondo in cui i film non li vede nessuno e non hai nessuna speranza di diventare il qualcosa della tua generazione: il Robert De Niro, ma anche solo il James Caan.
Timothée Chalamet compie trent’anni tra due settimane: perché abbia scelto di fare il mestiere di fare le facce in un’epoca in cui il cinema era già morto e lo star system era già un’anima da vendere al diavolo in cambio di vantaggi minorissimi non è chiaro. Forse non è intelligentissimo. Ma non distraiamoci dallo scandaluccio da un quarto d’ora di cui anche oggi ci occupiamo invece di leggere Proust.
A Natale esce “Marty Supreme”, un film che, se come me e altri quattro vi ostinate a leggere i giornali, vedete promosso da mesi. Prima come il film con cui Gwyneth Paltrow torna al cinema (pare che i film di supereroi non contino), e ora come il film pazzeschissimo per cui Chalamet vincerà l’Oscar. A margine: in mesi di interviste e articoli e anticipazioni io non sono ancora riuscita a capire perché dovrei andare a vederlo. È la storia vera d’un campione di ping pong: non altissima tra i miei interessi, anche se capisco che le trame sono una questione minore.
C’è stata la prima a Los Angeles, e c’è stata quella cosa chiamata junket, che alcuni disgraziati conoscono per aver prima o poi partecipato e i più sanno che esiste solo perché hanno visto “Notting Hill”: quelle situazioni in cui il famoso del caso si trova davanti una catena di montaggio di giornalisti che vogliono chiedergli se si senta più cavallo o più segugio.
“Notting Hill” è di prima dell’internet: adesso all’inviato di Cavalli e segugi si aggiungono tikoker, podcaster, sarcazzer assortiti tutti coi loro bravi tre minuti di tempo con quello che in gergo si chiama «il talent». Quindi il povero Chalamet fa il suo giro di cavalli e di segugi, vestito come un pirla (ho visto molta gente che dovrebbe far causa allo stylist, ma nessuna con l’urgenza con cui dovrebbe fargliela Chalamet: vi invito a guardarlo in arancione, con fidanzata pure in arancione, alla prima del film, e a chiedervi assieme a me se siano sponsorizzati dai portantini delle ambulanze, dalla società autostrade, da chi).
Nella notte tra martedì e mercoledì si abbattono su Timothée i pronostici di chi dice che ecco, dopo che ha detto questa cosa non vincerà mai l’Oscar. Cos’ha detto? Ricopio. «Questa è probabilmente la mia performance migliore, cioè, sono tipo sette, otto anni che servo interpretazioni davvero impegnative a un livello altissimo. Ed è importante dirlo a voce alta perché la disciplina e l’etica del lavoro che metto in ’sta roba, la gente non deve darle per scontate, io stesso non voglio darle per scontate. Questa è roba top di gamma» (l’ho tradotto come un concessionario di automobili lombardo, sì).
La parte migliore viene dal fatto che io ho dovuto ricopiare il testo trascritto da chi aveva postato il video perché, finché mi sono svegliata mercoledì mattina, chiunque lavori per Chalamet aveva già fatto sparire l’intervista dal canale YouTube della tizia che gliel’aveva fatta (Margaret Gardiner, miss Universo nel 1978, adesso intervistatrice di star, come tutti). E anche il video dalle pagine di account di fan che l’avevano salvato e postato.
Sono andata su Wayback Machine (la pagina che archivia tutta l’internet), e al link ci sono tre salvataggi prima che venisse cancellata; ma, dopo il primo fotogramma in cui si vedono Timothée e Margaret assieme, appare la scritta «We have not been able to archive the video associated with this YouTube page»: chiunque lavori per Chalamet, lavora con lo zelo di quando esistevano lo star system, la reputazione, e altri relitti novecenteschi.
È passato meno di un anno da quando, vincendo il premio del sindacato degli attori per “A complete unknown” (una delle sue performance top di gamma), Chalamet disse che sapeva che non era cool ammetterlo, ma lui voleva essere uno dei grandi. Ora, io “A complete unknown” non l’ho visto, perché vivo in questo secolo di otto secondi d’attenzione e vedo solo i film che proprio bisogna vedere. Degli otto anni in cui Chalamet si autocertifica top di gamma ho visto quello della pesca di Guadagnino, e quello in cui finiva il mondo di Netflix – ma scopro che c’era lui controllandone la filmografia, giacché, come tutti, di quel film ricordo solo Leonardo DiCaprio, che è diventato DiCaprio quando Chalamet aveva due anni e il mondo non era ancora finito.
Io non ho visto niente, e non me ne importa granché di quanto Chalamet sappia far le facce, ma sospetto che il punto non sia se è cool o uncool ammettere le proprie ambizioni. Il punto è che nessuno che sia bravo in qualcosa perde tempo a farlo presente agli altri: non c’è bisogno, i bravi sono così pochi in tutti i settori, si notano senza sottolineature. O, come avrebbero detto le nostre nonne (Timothée, non ce l’hai una nonna?), chi si loda s’imbroda.
Vorrei sommessamente dire, al ragazzo ma pure al suo staff che si precipita a far sparire un video in cui s’è detto bravo da solo come suo solito, che non me lo vedo Jack Nicholson a dire che la sua performance in “Conoscenza carnale” spacca; non me la vedo Meryl Streep a spiegare a un intervistatore che in “Il diavolo veste Prada” se la comanda; non me lo vedo Vittorio Gassman a dire al tg «sono proprio bravo, non datelo per scontato»; non me lo vedo Kevin Spacey, ringraziando per l’Oscar «Jack Lemmon, dovunque tu sia», aggiungere: visto che sono il tuo ovvio erede.
C’è una conferenza stampa di vent’anni fa in cui Philip Seymour Hoffman, che aveva interpretato “Capote”, dice che Truman Capote con “A sangue freddo” voleva scrivere il libro che fermasse il mondo, quello dopo il quale qualunque lettore dicesse non ho bisogno di leggere altro, questa è l’opera definitiva. Perché, spiegava, è quel che vogliamo tutti: come artisti, vogliamo che chi guarda dica «il mondo può finire, ora che ho visto quest’arte».
Te lo vedi Philip Seymour Hoffman, dopo aver spiegato l’ambizione e la smania di riconoscimento e il buco nero dell’affetto del pubblico che non basta mai, aggiungere «e comunque sono molto bravo in questa interpretazione, l’avrete notato».
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