A chi servono (davvero) le classifiche gastronomiche?

Agosto 14, 2025 - 06:30
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A chi servono (davvero) le classifiche gastronomiche?

Non sono solo elenchi. Le classifiche gastronomiche – prima fra tutte quella dei World’s 50 Best Restaurants ma vale lo stesso per le guide gastronomiche – sono oggi dispositivi di potere. Strumenti che assegnano valore, distribuiscono attenzione e ridefiniscono le priorità di cuochi, imprenditori, giornalisti e sponsor. Non si limitano a fotografare lo stato dell’arte della cucina globale: ne determinano la forma, il ritmo, il linguaggio.

Un tempo erano le guide a stabilire chi contasse. Poi è arrivata l’epoca degli eventi, delle conferenze-show, dei consulenti mediatici. Oggi, per aprire un ristorante e farlo notare, serve molto più di una buona idea in cucina: serve far parte del sistema. Parlare nei posti giusti, apparire nelle foto giuste, avere il sostegno delle persone giuste. Le classifiche, da strumento di racconto, sono diventate palcoscenico e passaporto, marchio di status e leva commerciale.

Ma a chi servono, davvero? E chi resta fuori da questo gioco?

Lisa Abend è giornalista basata a Copenaghen. Scrive per Time, The New York Times e The Atlantic, ed è autrice di “The Sorcerer’s Apprentices” (il libro sugli stagisti di elBulli) e apre il tema con una riflessione: «Forse è questo il paradosso della lista: nata per celebrare la diversità culinaria, è finita per appiattirla, premiando chi segue il copione. Ma forse è anche solo lo specchio del mondo che abbiamo costruito».

Nella sua analisi emerge prepotente la trasformazione della comunicazione gastronomica e il ruolo centrale assunto oggi da PR, influencer, eventi e classifiche come i World’s 50 Best Restaurants nel determinare il successo di un ristorante.

Un tempo erano i giornalisti a scegliere chi raccontare, ed era questo il nostro grande privilegio, unica fonte di potere rimasta di un mestiere in via di estinzione: oggi sono i ristoranti e gli chef a scegliere i giornalisti, gestendo la narrazione attraverso media consultant e operazioni di Pr sofisticate. Figure come Juan Soler (influencer legato ai 50 Best) o professionisti come Monica Brown e Maribel Pollen, o l’italiana Manuela Fissore dimostrano quanto la visibilità sia ormai curata come una strategia di branding, anche se spesso nata da intuito più che da tecnica.

Parallelamente, sono cambiate le regole del gioco: le conferenze gastronomiche sono diventate show itineranti; le cene sono eventi scenografici; le classifiche sono sempre più percepite come strumenti di marketing piuttosto che meriti oggettivi. Chef come David Chang, Magnus Nilsson, Christian Puglisi o René Redzepi esprimono frustrazione per la spettacolarizzazione e la pressione del sistema, mentre altri – come Sat Bains – denunciano apertamente la logica commerciale dietro le classifiche: «con il budget giusto, puoi ottenere quello che vuoi». Ma qual è questa logica e su quali presupposti si basa? 

Per entrare nella lista occorre fare un grande lavoro di Pr internazionali: si devono invitare nel proprio ristorante i critici più influenti delle nazioni votanti, così da ampliare la propria possibilità di riuscita. Più persone inviti al ristorante – persone che contano, non influencer senza arte né parte – più il tuo nome girerà tra gli ispettori, e più ci sarà modo di essere candidati. Ma non basta: se l’invito invece di arrivare da una sola insegna arriva da una nazione, i giochi diventano ancora migliori. Molti stati del Nord Europa hanno sponsorizzato viaggi stampa per far diventare mete anche gastronomiche i loro territori, che oggi dopo quasi vent’anni di investimenti sono universalmente riconosciuti anche per questa caratteristica, e attirano i gourmet di tutto il mondo, attirati non da un singolo ristorante ma da un gruppetto di insegne interessanti da frequentare. Più la fascia alta della ristorazione cresce, più diventa appetibile per gli stage: più i ragazzi di tutta Europa provano ad andare come stagisti o commis in questi ristoranti, più ne parlano tra loro e coi colleghi rimasti in Italia. L’hype cresce, e così l’interesse per la stampa di settore.

Ma le classifiche non servono solo ai ristoranti e alle agenzie di Pr: servono anche – e molto – agli sponsor, che hanno visibilità e opportunità di business diventando partner e investendo in queste liste. Il paradosso della 50 Best, anche in questo senso è evidente: una classifica nata per alzare il percepito internazionale di un brand di acque minerali è finanziata da altri partner che investono nel progetto di marketing di un’altra azienda pur di entrare nel giro che conta.

Le classifiche poi servono ai giornalisti, che – millantando o no di essere degli ispettori – possono visitare ristoranti internazionali in cambio di una citazione o di un voto. Ma servono anche agli chef che vogliono entrare nel Gotha: per essere notati per l’anno successivo molti chef frequentano le kermesse di presentazione, ci propongono per cucinare durante l’evento, postano dal luogo della manifestazione, così da avere visibilità e tentare di scalare classifiche.

Le classifiche, spesso, cambiano piani, ricette e identità dei luoghi del gusto: molti ristoranti si trovano costretti a partecipare per non essere esclusi dal “giro”, anche se questo comporta snaturare la propria missione e cucinare più per impressionare che per soddisfare i clienti. La comunicazione diventa così non più strumento di racconto, ma criterio di appartenenza, e chi ne resta fuori rischia l’invisibilità.

In conclusione, è evidente il paradosso della lista: nata per celebrare la diversità, ha finito per standardizzare, premiando chi segue il copione. Uno specchio del mondo gastronomico (e culturale) di oggi, sempre più dominato da percezione e visibilità.

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