A Parigi si è appena conclusa la Haute Couture 2025: tra i défilé più importanti quelli di Maison Margiela, Schiaparelli e Balenciaga

Lug 12, 2025 - 18:30
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A Parigi si è appena conclusa la Haute Couture 2025: tra i défilé più importanti quelli di Maison Margiela, Schiaparelli e Balenciaga

La couture come bunker emotivo. Una nicchia privata dove rifugiarsi dalla sovraesposizione, dalla semplificazione, dal ridicolo collettivo. Ogni abito è un fortino cucito su misura. Le spalle alte, le cinture strette, i corpetti rinforzati — nulla è lasciato al caso. Non si tratta più di decorare, ma di difendere. Dall’invadenza, dall’insensatezza, dal rumore. In un mondo di finestre spalancate, la couture chiude le tende. Non per nascondersi, ma per proteggere l’intimità di ciò che ancora ha valore.

Come da Coco: la sfilata Couture di Chanel torna alle origini

A Parigi, non ha sfilato la moda. Ha sfilato la memoria del futuro. Una processione di reliquie del domani, tessute con l’ansia del presente e cucite con filo d’oro e angoscia. Nessuna frivolezza, nessun baratto con l’illusione. Solo l’esattezza tragica della bellezza, appunto. I défilé hanno recitato un dramma contemporaneo: non un trionfo di frivolezza da red carpet, bensì uno specchio della nostra era tormentata. L’eleganza si tinge di inquietudine, e mai come oggi quel che è artigianale racconta un mondo «che non sa più come stare al mondo», parafrasando Proust: un involucro di nostalgia, terrore e sublime.

La couture 2025 è stata una mappa: non geografica, ma emotiva. Ogni maison ha tracciato una linea: Daniel Roseberry per Schiaparelli con i suoi cuori meccanici e i richiami all’estetica degli anni tra le due Guerre Mondiali, Glenn Martens al suo esordio come direttore artistica di Maison Margiela con i suoi spettri medievali e le reliquie post-industriali, Armani Privé con la sua opera al nero di raffinatezza affilata e dark. Perfino Chanel, per l’ultima volta disegnata dallo studio creativo prima dell’arrivo di Matthieu Blazy come direttore creativo, pur evocando una bucolica natura, in realtà nascondeva la paura.

maison margiela artisanal

Dalla sfilata Haute Couture Autunno-Inverno 2025 di Maison Margiela (foto Lunchmetrics Sporlight)

Questa couture non è l’evasione che ci aspettavamo: è la cronaca emotiva e lucente di un’epoca che si sa in declino. È il lusso pre-apocalittico, la consapevolezza che nulla può salvarci davvero se non l’arte del saper fare, da trasmettere come scintilla del sapere alle nuove generazioni.

Chic divinatorio, chic neoromantico

Il capo più rappresentativo di Schiaparelli, un lungo abito a colonna con la silhouette invertita – seni e ombelico sulla schiena, omaggio al surrealismo – ha destato scandalo quanto riverenza. Rosso lacca, in seta lucida, aveva un cuore meccanico pulsante sulla nuca, un tributo al Cuore Reale di Salvador Dalí (1953) che cuciva insieme bellezza e disgusto, filosofia chirurgica e poesia disturbante. Sullo sfondo, un’ambientazione noir anni Trenta che Roseberry definisce «il crepuscolo del glamour» prima dell’invasione tedesca. È un atto di necromanzia glamour: corsetti morbidi e abiti grigi ma imbottiti costruendo forme come escrescenze corporee che intrecciano fetish e malinconia. Per Roseberry il lusso è un fatto politico-emotivo.

«La moda vive al limite del futuro, guidata non da ciò che sappiamo, ma dall’emozione di scoprire cosa verrà dopo», si leggeva in una lettera scritta a mano da Demna lasciata su ogni sedia dello storico salone di alta moda Balenciaga in Avenue George V mercoledì mattina (Cristóbal Balenciaga inaugurò l’indirizzo parigino nel 1937; nel 2020, Demna lo avrebbe ristrutturato per ottenere una replica esatta, fino alla patina del tempo). Questo défilé è stato definito come una composizione di «interpretazioni couture di capi archetipici della borghesia», con blazer capaci di abbracciare anche un culturista, visoni e smoking col collo imbuto. È couture da workwear distorto, una celebrazione da greatest hits, narrazione che resta ambigua: liberatoria o funerea?

Demna inizierà a lavorare come direttore artistico di Gucci alla fine di questo mese, e questo canto del cigno aveva un’atmosfera da greatest hits. Un addio da grande teatro, con Kim Kardashian in passerella che incarnava Elizabeth Taylor e, con oltre 250 carati di diamanti, trasformava la passerella in grotto barocco e allo stesso tempo in elegia del passato del cinema hollywoodiano. Demna ha avuto che, uno dopo l’altro, i suoi collaboratori pronunciassero il loro nome, prima di uscire in passerella e lasciarsi applaudire. Sade sussurrava No Ordinary Love, epitaffio struggente sulla sua esperienza nella maison in dieci anni. La sfilata ha incarnato la tensione tra l’eleganza da salotto parigino e l’angoscia di un’epoca sospesa.

Giorgio Armani, da Milano, dirigeva da remoto per Armani Privé una collezione nera come una preghiera. Velluti lucidi, plastron trasparenti, cristalli incastonati su abiti dallo scintillio trattenuto. Un nero che non è assenza di colore, ma accumulo di tutti i significati possibili: morte, seduzione, dignità, negazione, eleganza, disarmo.

Chanel, con un’aura più naturalista, ha risposto con fiocchi, spighe, e creazioni da pastorale urbana, suggerendo un ritorno alla terra, ma senza mai sporcarsi le mani: la natura è filtrata dalla simbologia, come se pure l’ecologia fosse diventata un orpello couture.

Medioevo prossimo venturo

Glenn Martens ha firmato per Margiela una collezione che ha il tono della profezia: abiti cuciti come se fossero stati riesumati, corsetti in lattice, tuniche da inquisizione e zeppe da strega post-punk. La sfilata ha avuto il gusto del rituale esoterico, tra crocifissioni fashion e cappucci da eremiti sadomaso. Ma, attenzione: mai caricaturale. Mai kitsch. Solo terribilmente vera. In fondo, Martin Margiela è sempre stato l’unico a intuire che l’apocalisse non è un evento, ma un’estetica. Martens ne riprende la lezione e la riformula: i suoi abiti sono come reliquie del futuro, scampoli di un passato immaginato: quello del gotico medievale che permea Bruges, città dove è nato il nuovo direttore creativo, belga come lo è lo stesso Margiela.

La collezione è una sorta di requiem medievale fiammingo. I critici hanno dialogato tra sconcerto e ammirazione, qualcuno parlava di un debutto oltre le aspettative, altri di «effetto Ferrero Rocher» per i tessuti metallici accartocciati, stropicciati, tormentati. La sfilata si è svolta nel seminterrato di Le Centquatre, un centro culturale nel XIX arrondissement della città, dove gli ospiti si sono accomodati in diverse sale, immersi in un collage di carta che evocava quelli che Martens, definiva «sei diversi interni di palazzi». Sgualciti e staccati dalle pareti come poster, evocavano la passione di Martin Margiela per il trompe-l’oeil, ma suggerivano anche una sorta di grandezza sbiadita: installazione d’arte contemporanea e dimora signorile allo stesso tempo.

Martens ha abbracciato uno dei motivi più duraturi di Martin Margiela: la maschera, apparsa per la prima volta nella collezione di debutto Primavera Estate 1989 dello stilista belga, tenutasi in un night club parigino e che sarebbe diventata il simbolo del suo desiderio di anonimato. Qui, le maschere erano realizzate in metallo rovinato, ornate di cristalli frantumati o erano realizzate con strisce di organza trasparente o pizzo applicato.

La rivincita dell’oro

In mezzo a questa atmosfera crepuscolare, i veri vincitori della settimana sono stati i gioielli. Mentre il prêt-à-porter annaspa tra collezioni sfilacciate e sperimentazioni concettuali che nessuno compra davvero, i veri ricchi – i pochissimi – hanno investito in zaffiri, rubini, smeraldi, collane che sfidano la bancarotta. Gucci Alta Gioielleria o la linea Monili realizzata in co-creazione con Pomellato, Buccellati, Pasquale Bruni, Garatti, Damiani: le maison italiane sono state protagoniste, vendendo pezzi da sogno come se fossero pane quotidiano. Non per ostentazione, ma perché, in un mondo in rovina, possedere un diamante autentico è come possedere una fede. Le vendite sono esplose. Perché in un mondo dove il denaro è sempre più liquido e la verità sempre più evanescente, il gioiello resta materia solida. Talismano, ancora, testamento. Non è status, ma superstizione tangibile. Catenine come linee del destino, orecchini come memento mori. Pietre come custodi di chi siamo stati, o almeno di chi speravamo di essere prima che tutto cominciasse a franare.

In conclusione, questo lusso è pre-apocalittico perché è compiuta, rituale, consapevole del baratro. Non è il lusso di una passerella su Instagram, né un’esca da like, ma una corazza emotiva: indossare la fine del mondo con grazia funebre. È un atto estetico estremo che scandisce l’ultimo capitolo di un mondo che non regge più la retorica della leggerezza. Qui, la moda rivendica la sua funzione originaria di vestire la verità.

 

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