Abuso d’ufficio, Consulta: “Abrogazione non viola Convenzione Nazioni Unite”

Con la sentenza n. 95 del 2025, depositata oggi, la Corte costituzionale ha posto un punto fermo sulla discussa abrogazione del reato di abuso d’ufficio, operata con la legge n. 114 del 2024. La Corte ha respinto tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, stabilendo che tale abrogazione non viola la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, nota come Convenzione di Mérida. L’elemento centrale della decisione riguarda l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che vincola l’attività legislativa al rispetto degli obblighi internazionali. Secondo la Consulta, la Convenzione di Mérida non impone agli Stati l’obbligo specifico di prevedere come reato l’abuso d’ufficio.
Le norme della convenzione invocate dai giudici rimettenti, ha spiegato la Corte, non delineano un dovere puntuale in tal senso, anche perché il reato stesso non è presente in modo uniforme negli ordinamenti dei Paesi firmatari. Se la Convenzione avesse previsto un simile obbligo, la Corte avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità della legge abrogativa, ripristinando la normativa precedente. Il legislatore italiano, quindi, ha agito nel rispetto del margine di discrezionalità riconosciuto a ogni Stato nella definizione delle proprie politiche penali. I giudici rimettenti avevano inoltre contestato la scelta del Parlamento sul piano interno, ritenendola lesiva del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Tali censure sono però state dichiarate inammissibili. La Corte ha ribadito, in linea con la sua giurisprudenza consolidata, che non può accogliere questioni che mirino a ripristinare una norma penale più severa, determinando un effetto “in malam partem”.
Secondo la Corte, valutare se l’abolizione dell’abuso d’ufficio abbia prodotto “vuoti di tutela” penalmente rilevanti, o se questi siano stati controbilanciati da benefici sistemici (come auspicato dal legislatore nella relazione illustrativa alla riforma) è questione politica, che non può essere sindacata in sede di giudizio costituzionale. Secondo quanto riportato nella sentenza, il reato di abuso d’ufficio, nel corso degli anni, era divenuto oggetto di ampio dibattito. Mentre da un lato infatti si discuteva, per l’eccessiva vaghezza della norma, che avrebbe prodotto incertezza e “paura della firma” nella pubblica amministrazione, dall’altro, destava preoccupazioni per il rischio di depotenziamento dei controlli sulla legalità dell’azione amministrativa.
Con questa decisione, la Corte costituzionale ha riaffermato i confini del proprio ruolo, ossia garantire il rispetto dei parametri costituzionali e internazionali, senza sovrapporre valutazioni politiche a quelle del Parlamento. La responsabilità ultima di bilanciare repressione penale e efficienza amministrativa, ha ricordato la Consulta, resta in capo al legislatore. La sentenza emessa oggi (la numero 95), rappresenta quindi non solo un giudizio sulla legittimità di una specifica scelta normativa, ma anche un chiarimento sul delicato equilibrio tra potere legislativo e controllo di costituzionalità.
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