Delpini: «Auspico una Chiesa in cui tutti si sentano a casa»

Lug 20, 2025 - 20:00
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Delpini: «Auspico una Chiesa in cui tutti si sentano a casa»

Perché «i cristiani sono originali»? Cosa significa «portare il Sinodo in casa»? Parte da questi due punti-cardine l’approfondimento dell’Arcivescovo sulla sua Proposta pastorale 2025-2026, dal titolo Tra voi, però, non sia così”: «Portare il Sinodo in casa vuole dire accettare la contestazione di Gesù rispetto all’atteggiamento dei discepoli che, invece, si domandano chi di loro sia il più importante e il più grande. Con una tendenza spontanea, dunque, che pare sia quella di immaginare la responsabilità come un privilegio, come un potere. “Tra voi, però, non sia così” significa invece, dire – con le parole di Gesù – che chi vuole essere il primo sia il servo di tutti. Di fronte a un certo modo di esercitare il potere, interpretarlo al contrario come un servizio e una responsabilità capace di suscitare corresponsabilità, indica un cammino diverso. È chiedere che chi ha maggiori responsabilità sia il servo di tutti».

Le parole sinodalità e missionarietà, talvolta, paiono molto ripetute, un po’ fruste. Ma forse, per superare questo pericolo, ci si può interrogare sull’identità missionaria della Chiesa ambrosiana nel voler essere realmente una Chiesa dalle genti…
Sì, è vero. La parola missionarietà, come del resto sinodalità, è utilizzata così frequentemente da diventare piuttosto opaca, come un’allusione a un concetto che pare chiaro a tutti, ma che poi non si realizza nei contenuti. Il Sinodo minore Chiesa dalle Genti vuole invitare, nel concreto, alla particolare responsabilità di un coinvolgimento di tutti i cattolici presenti sul nostro territorio e provenienti da tante parti del mondo. Persone che portano un desiderio di Dio, un modo di pregare, un arricchimento che genera la Chiesa del futuro. Quella che io mi auguro, che spero e per la quale invoco lo Spirito Santo perché ci aiuti a essere, non una Chiesa come un arcipelago, in cui ogni comunità vive e celebra per conto suo secondo la propria tradizione, ma una casa comune in cui tutti si sentano a casa. Una casa fatta, appunto, dalle genti.

Perché, come lei scrive, la sinodalità talvolta «ci mette in imbarazzo»?
Perché la parola missione dovrebbe avere un contenuto preciso, ossia obbedire a Gesù che manda i suoi discepoli fino ai confini della terra per annunciare il Vangelo, radunando i popoli in una comunione in cui tutti siano un cuor solo e un’anima sola. Dunque, la missione è un’obbedienza, mentre la situazione, in questo momento, mi sembra imbarazzante perché non si riesce a “dire” Gesù, ad annunciare il suo Vangelo, a testimoniare che crediamo in Lui vivo e risorto. Oggi pare di essere indiscreti a proclamarlo, sembra di voler fare proselitismo, sembra che fare del bene voglia dire soprattutto tacere le ragioni per cui lo si fa.  

A proposito di realizzazioni concrete, come stanno andando le Assemblee sinodali decanali, frutto e contributo che la nostra Chiesa offre al cammino sinodale della Chiesa universale e italiana?
La mia constatazione è che ci sia tanta gente a cui la gente interessa. I membri dell’Assemblea sinodale, e prima dei Gruppi Barnaba, e analogamente quelli dei Consigli pastorali, sono persone così, che hanno a cuore la gente che incontrano, ascoltano coloro con cui vivono ogni giorno. In tutti gli ambiti ci sono donne e uomini che vivono la testimonianza che apre sentieri di speranza, propiziando le Assemblee sinodali decanali e la partecipazione ai Consigli pastorali.

Per questo, anche a livello centrale, la Diocesi ha impiegato energie, laboratori di pensiero, indicando percorsi e orientando «le molte forme con cui la parola “corre” sulle strade degli uomini», per usare una sua espressione?
Abbiamo dedicato un impegno specifico nel proporre percorsi di formazione, proprio perché il coraggio di farsi carico della speranza del mondo non è un’espressione retorica, ma è un percorso da compiere. Questo spirito che mi sembra di cogliere, in modo molto diffuso, è la condizione preliminare per farsi carico della vita della comunità perché sia attraente e della vita della gente perché sia raggiunta dalla Parola che siamo incaricati di annunciare.

In uno dei più brillanti intermezzi della sua Proposta, lei fa dialogare il Signore in croce con un don Camillo che non crede molto nei Consigli pastorali. Un modo per “tirare un poco le orecchie” ad alcuni suoi sacerdoti e per dimostrare, come si legge sempre nella Proposta, che «la sinodalità non è una riduzione del ruolo del prete, ma una sua esaltazione»?
In questa scenetta che ho immaginato, don Camillo è l’immagine di una sorta di Clero tridentino, cioè di quel modo di essere preti che immagina un paese con il parroco al centro quale unico soggetto promotore e animatore della vita della comunità. Il senso di questo intermezzo, dove don Camillo è rappresentato un po’ come una caricatura anche per alleggerire il testo, è, al contrario, quello di raccomandare l’attenzione alla corresponsabilità che tanti preti e laici desiderano e mettono in pratica.

A proposito di corresponsabilità tra presbiteri e laicato, la Curia ha stilato una sua “Carta di Valori”. È un’iniziativa che potrebbe essere replicata anche in altre realtà ecclesiali come alcune grandi Comunità pastorali? 
Questa iniziativa che il Moderator Curiae, monsignor Carlo Azzimonti, ha promosso nei mesi scorsi e che è giunta alla redazione finale, mi sembra un buon modello di ragionamento condiviso, che giunge a una formulazione: quindi, è uno dei modi con cui si condivide e si esprime la responsabilità. Quanto alle comunità del territorio – parrocchie e Comunità pastorali -, la stesura di una carta di intenti può essere certamente un’occasione per incontrarsi, per distinguere le cose importanti da quelle secondarie, per prendere decisioni sugli orientamenti comuni. A patto, però, che quel foglio di carta non finisca in un archivio. Abbiamo bisogno delle “carte”, ma soprattutto dello spirito che scrive una storia di Chiesa nel nostro territorio.

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