Ecuador. Noboa espelle in massa i detenuti colombiani

di Giuseppe Gagliano –
Sabato 26 luglio centinaia di detenuti colombiani hanno attraversato a piedi il ponte internazionale di Rumichaca, scortati dai militari ecuadoriani. Una scena che ricorda tempi oscuri, ma che questa volta si consuma sotto lo sguardo imbarazzato delle autorità colombiane, colte di sorpresa da un’operazione pianificata unilateralmente da Quito. Il governo dell’Ecuador ha infatti espulso in massa cittadini colombiani detenuti nelle proprie carceri, nel tentativo di alleggerire un sistema penitenziario prossimo al collasso. Il presidente Daniel Noboa ha rivendicato la decisione come necessaria: ridurre la pressione interna, limitare la criminalità, riconquistare il controllo dello Stato.
Il gesto ha suscitato l’ira di Bogotá, che parla di “violazione del diritto internazionale” e “gesto ostile”, mentre le amministrazioni locali sono state costrette a organizzare in fretta strutture di accoglienza per centinaia di individui privi di qualsiasi supporto. Il numero degli espulsi oscilla tra i 603 dichiarati ufficialmente e gli oltre 870 segnalati da fonti indipendenti. Al di là delle cifre, il messaggio è chiaro: l’Ecuador non intende più farsi carico di detenuti stranieri, soprattutto se ritenuti legati a gang criminali che stanno trasformando il Paese in una delle nuove capitali della violenza latinoamericana.
Il contesto interno giustifica, almeno in parte, la durezza della linea adottata da Noboa. Con un tasso di omicidi che ha toccato i 38 per 100mila abitanti nel 2024 e con bande legate al narcotraffico sempre più radicate nelle città e nelle carceri, l’Ecuador vive una vera emergenza di sicurezza nazionale. La crisi penitenziaria è il riflesso di un tessuto istituzionale eroso, dove lo Stato fatica a garantire l’ordine anche nei suoi luoghi più simbolici. Le carceri, un tempo luoghi di detenzione, sono diventate roccaforti criminali, centri di comando per estorsioni, reclutamenti e omicidi su commissione. Noboa ha scelto la via più immediata: espellere, liberare celle, mostrarsi inflessibile.
La Colombia da parte sua non può permettersi di ignorare la provocazione. L’assenza di coordinamento ha messo in crisi le autorità migratorie, esposte ora a una gestione emergenziale con pesanti ricadute umanitarie. Ma c’è di più. Per il governo di Gustavo Petro, che ha impostato la sua linea estera su cooperazione e multilateralismo, l’espulsione di massa rappresenta uno smacco politico. Accogliere detenuti senza alcun filtro significa aprire un nuovo fronte interno, con la possibilità concreta che criminali pericolosi tornino ad agire nei contesti urbani e rurali più vulnerabili del Paese.
Questa vicenda va letta anche alla luce delle trasformazioni geopolitiche che attraversano l’America Latina. L’Ecuador di Noboa si inserisce in quel nuovo asse conservatore e securitario che, dalla Salvador di Bukele all’Argentina di Milei, sta rimettendo al centro la promessa dell’ordine e della tolleranza zero. In questo schema, l’espulsione dei detenuti stranieri diventa una leva simbolica potente: rafforzare la sovranità nazionale, rispondere alla rabbia popolare, mandare un messaggio ai partner regionali. Poco importa se il diritto internazionale viene piegato. Conta di più il consenso interno e l’immagine di uno Stato che finalmente reagisce.
Tuttavia, l’Ecuador rischia di pagare cara questa dimostrazione di forza. La crisi con la Colombia potrebbe estendersi al piano economico e diplomatico. Bogotá è un partner commerciale strategico e un attore chiave nei programmi regionali di sicurezza e sviluppo. Un deterioramento dei rapporti bilaterali rischia di isolare ulteriormente Quito, già fragile sul piano economico e dipendente da aiuti internazionali. E se altri Paesi seguiranno l’esempio di Noboa, si potrebbe assistere a una frammentazione pericolosa della cooperazione sudamericana, in un momento in cui il continente avrebbe bisogno di coesione per affrontare sfide globali come migrazioni, clima e criminalità transnazionale.
In nome della sicurezza interna, l’Ecuador ha rotto un equilibrio fragile. La lotta al crimine non può prescindere dalla legalità e dal rispetto reciproco tra Stati. L’espulsione di massa dei detenuti colombiani apre un precedente e rappresenta il sintomo di un’America Latina che oscilla pericolosamente tra voglia di ordine e tentazione autoritaria. Se la Colombia risponderà con misure simmetriche, il rischio è di entrare in una spirale di tensioni che indebolirà entrambe le nazioni. In questo scenario, il vero crimine sarebbe dimenticare che la sicurezza non può essere costruita sulle ceneri della cooperazione regionale
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