La storia di Satnam, sfruttato e ucciso come una bestia

“Mai più nessuno deve morire come mio figlio”. Lo dice tra le lacrime Jasveer Kaur, la madre di Satnam Singh, il bracciante indiano di 31 anni che a giugno 2024 ha perso la vita all’Ospedale San Camillo di Roma, dopo che un macchinario gli aveva tranciato un braccio. Lavorava per l’azienda agricola della cooperativa Agrilovato, nei pressi di Latina. Dopo l’incidente, fu abbandonato dal datore di lavoro davanti casa, senza soccorsi, arto amputato incluso. Trentasei ore di agonia, poi la morte. E il parere dei medici, che più fa indignare: se fosse stato soccorso prima, il 31enne si sarebbe salvato.
Ieri a incontrare i familiari di Satnam, giunti in Italia il 13 luglio – oltre alla madre Jasveer, c’erano anche il padre Gurmukh Singh, il fratello Amritpal, la sorella Rajveer Kaur, la cognata e i nipoti – è stato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini insieme a Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil. I genitori e i fratelli hanno trascorso gli ultimi giorni visitando i “luoghi” di Satnam: la casa in cui viveva con la compagna Soni e quel campo di Borgo Santa Maria in cui ha trovato la morte lavorando. Un viaggio attraverso cui la madre e il padre, forse, tentano anche di comprendere in che modo un Paese come l’Italia, tanto civile all’apparenza, si sia potuto trasformare nella tomba di loro figlio. Nei giorni scorsi, i parenti di Satnam hanno assistito a un’udienza del processo presso il Tribunale di Latina, un gesto difficile ma significativo, e hanno incontrato la prefetta Vittoria Ciaramella. Si è arrivati all’incontro di ieri dopo questa serie di “tappe”, che ha compreso anche quella, il 14 luglio presso la Regione Lazio, con il governatore Francesco Rocca e che comprenderà quella finale al Senato.
Alla sede della Cgil nazionale, il primo a parlare – tradotto, come la moglie, da un’interprete – è Gurmukh Singh, che lancia un appello: “Siamo venuti qui dal Punjab per chiedere giustizia per mio figlio”. Il padre di Satnam esterna poi la volontà di rimanere in Italia per seguire il processo del figlio, che vede come imputato l’imprenditore Antonello Lovato: “Vorrei poter rimanere per tutta la durata”, dice. Da padre, non vuole perdere il momento della sentenza. Rispondono alle domande intervallandosi Gurmukh e Jasveer, tra commozione e gratitudine. Quando si chiede loro ciò che sperano per il futuro, a replicare è la madre di Satnam: “Grazie alla Cgil è stato possibile organizzare questo viaggio e venire qui in Italia per vedere i posti dove Satnam viveva e lavorava. Ed è come se in questi luoghi ci fosse ancora una parte di lui, come se potessimo vedere una parte di nostro figlio in cui era ancora vivo. E anche nella nostra memoria Satnam c’è”. Parole accolte da un forte applauso. Commossa, Jasveer continua: “Quello che è successo a mio figlio non deve succedere a nessun altro. Non devono esserci altri Satnam in Italia”. E l’applauso a questo punto è ancora più forte.
Potenti sono anche le parole di Landini, che interviene subito dopo i genitori di Satnam. Prima prende l’impegno di trovare il modo di farli rimanere in Italia, poi denuncia una cultura dello sfruttamento che è “un sistema” e che dunque “va smantellato”. Da dove partire? Contro il caporalato sono necessarie più leggi oppure più controlli per rendere efficaci quelle già esistenti? “Servono di certo più controlli – risponde Landini – ma serve anche che il sistema di impresa reagisca”. E spiega: “C’è un modello di fare impresa che si è affermato in questi anni che è fondato sullo sfruttamento del lavoro, sul caporalato, sul lavoro nero. Quindi è evidente che c’è bisogno non solo di applicare le leggi che ci sono, ma anche di fare in modo che prevalga dentro al sistema delle imprese una lotta molto precisa contro chi fa l’imprenditore/bandito, e non l’imprenditore”. Il tono si fa quindi più perentorio: “È ora di smetterla con l’ipocrisia, di far finta che viviamo nel Paese delle meraviglie – dice Landini – perché in molti casi la realtà concreta è fatta di sfruttamento” e per rispondere serve “un’azione sindacale intransigente, radicale, che non accetti compromessi”.
A margine dell’incontro, qualcuno chiede ai genitori di Satnam cosa avrebbero voluto dire all’imprenditore agricolo che ha abbandonato loro figlio agonizzante. E la risposta: “Non c’è niente da dire, perché non ha pensato che anche Satnam era una persona, ha fatto con lui quello che noi non avremmo fatto neanche con un animale, se lo avesse portato in ospedale forse oggi sarebbe vivo, anche senza un braccio”. Un’amara consapevolezza, questa, unita però alla speranza che ciò che è accaduto a quel giovane possa segnare un punto di svolta. Ed è Mininni a sottolineare come effettivamente la morte di Satnam “non è stata inutile, ma sta portando a risultati anche nelle procure”. L’ultimo è arrivato proprio ieri: la regolarizzazione di 22 braccianti indiani dell’Agro Pontino che, negli ultimi mesi, spinti da ciò che è successo a Satnam, avevano denunciato i propri aguzzini con l’aiuto di Flai Cgil. La Procura di Latina ha dato loro un permesso di soggiorno per casi speciali, perché riconosciuti vittime di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo. Adesso possono rifarsi una vita e cercare un lavoro regolare. Che questo possa essere solo il primo passo, nel nome di Satnam e di tutte le altre vittime di un sistema che sfrutta e uccide.
Qual è la tua reazione?






