Moda sotto attacco: le violazioni di dati minacciano i big brand
Victoria’s Secret, Adidas, Cartier sono solo alcuni tra i noti nomi del fashion finiti sotto i riflettori nelle ultime settimane per gravi violazioni dei dati personali dei consumatori. Che in alcuni casi, come quello del colosso di intimo statunitense, hanno portato a dover disattivare i sistemi aziendali e il sito e-commerce, ostacolando persino l’accesso ai dati interni necessari per finalizzare il bilancio, portando al rinvio della pubblicazione prevista per il 5 giugno.
Nel caso di Adidas, invece, un soggetto esterno non autorizzato ha avuto accesso a informazioni di contatto di consumatori attraverso un fornitore di servizi clienti terzo. L’azienda ha precisato che dati sensibili come password e informazioni legate ai pagamenti non sono stati compromessi.
Lo stesso è accaduto a Cartier, marchio di gioielleria di lusso dell’orbita Richemont, cui sono stati sottratti alcuni dati dei clienti. Secondo quanto comunicato, le informazioni esposte includevano nomi, indirizzi email e Paesi di residenza. Prima di loro anche Dior, Replay, The North Face, solo nel 2025.
Gli attacchi informatici nel mondo della moda stanno aumentando a un ritmo allarmante, mettendo sotto pressione i reparti IT, la compliance normativa e – soprattutto – la fiducia del consumatore. Episodi come questo evidenziano la crescente vulnerabilità dei retailer globali agli attacchi informatici, evidenziando l’importanza di strategie di cybersecurity robuste e integrate per proteggere sia i dati dei clienti che la reputazione del brand.
Ma perché il fashion è diventato un target così strategico per i cybercriminali? Lo ha spiegato a Pambianconews Marco Davalli, country manager southern & eastern Europe di Cegid, tech company che da 40 anni offre soluzioni di gestione aziendale retail basate sul cloud. “Le violazioni dei dati nel settore moda stanno diventando sempre più frequenti per un motivo molto semplice: il fashion è oggi uno dei settori più digitalizzati e, allo stesso tempo, uno dei più esposti. I brand gestiscono una mole enorme di informazioni sensibili, raccolti attraverso touchpoint omnicanale – boutique, e-commerce, app, Crm e social – che formano un ecosistema estremamente appetibile”.
Il problema, dunque, non è solo tecnico. L’infrastruttura globale dei grandi brand – spesso frammentata, con team distribuiti e tecnologie eterogenee – amplifica la superficie d’attacco. “La cybersecurity, se non affrontata con un approccio olistico e continuo, rischia di diventare il tallone d’Achille dell’innovazione”, spiega Davalli.
In un settore che fa della personalizzazione uno dei driver principali di engagement e loyalty, i dati dei clienti sono dunque una risorsa strategica: “Gli hacker cercano dati che permettano di ricostruire profili digitali completi: cronologia acquisti, preferenze, email, indirizzi e, soprattutto, le modalità di pagamento. Sono informazioni usate per campagne marketing avanzate, raccomandazioni in tempo reale, servizi Vip. Ma nelle mani sbagliate diventano uno strumento potente per frodi e ricatti”, aggiunge il manager.
Non è solo il consumatore, perciò, a essere minacciato: il brand stesso è esposto a danni reputazionali e sanzioni legate alla normativa sulla protezione dei dati (Gdpr in Europa, Cccpa in California). Non si tratta, infatti, solo di furti di dati fini a sé stessi: “spesso questi dati vengono rivenduti nel dark web o usati per attività fraudolente ben più sofisticate e oltre ai dati dei consumatori agli hacker interessa ricattare il brand, che è responsabile del trattamento dei dati dei propri clienti, e ne risponde con grosse sanzioni per eventuali perdite di dati. Un brand che non protegge i dati dei propri clienti non è affidabile e l’affidabilità, nella moda, è un asset intangibile ma decisivo”, prosegue Davalli.
Molti gruppi del fashion stanno già evolvendo verso una protezione più strutturata, ma la strada è ancora lunga. La parola d’ordine oggi è integrazione. “Le aziende devono passare da una logica di protezione a compartimenti stagni a un approccio proattivo e integrato. Serve un cambiamento culturale, prima ancora che tecnologico. “Noi di Cegid, ad esempio, adottiamo una strategia di ‘security by design’. Tutte le nostre soluzioni – dal Pos mobile alla piattaforma di unified commerce – rispettano i più alti standard di sicurezza internazionali: Iso/Iec 27001, cifratura dei dati, accessi controllati, compliance Gdpr.”
L’azienda lavora a stretto contatto con i team It dei retailer per garantire una sicurezza end-to-end, dal punto vendita al cloud, usando tecnologie per impedire la creazione di utenti fake, monitorando le minacce e affidando penetration test a partner esterni specializzati e realizzando sistemi avanzati di disaster recovery. Nel mondo del fashion, dove l’identità del brand è tutto, la cybersecurity è diventata una componente della brand equity. In un mercato globale sempre più esposto e iperconnesso, la protezione del dato diventa protezione stessa del marchio.
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