Ottant’anni dopo: dalla fine della guerra alla speranza di pace



Ottant’anni fa finiva la Seconda guerra mondiale, costata la vita a 85 milioni di persone, più della metà civili. Ottant’anni fa iniziava il lavoro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, per mantenere la pace e la sicurezza internazionali attraverso la composizione delle controversie, per sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli orientate alla cooperazione, promuovendo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. È giusto e doveroso celebrare quel momento, in cui la comune esperienza di un enorme male è sfociata nella speranza attiva e consapevole di voler coltivare un cammino comune della famiglia umana.
Oggi, cosa rimane di quella consapevolezza e di quello slancio di collaborazione? I giornali e i tg ci parlano di fallimenti politici delle istituzioni internazionali, paralizzate dalle rivalità tra grandi potenze, di corsa al riarmo, di riduzione o azzeramento dei finanziamenti pubblici per interventi di collaborazione internazionale. Il numero dei conflitti, interminabili e complessi, è raddoppiato negli ultimi cinque anni; più di 300 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari e protezione. Ma in un mondo dove conta solo la potenza, l’autorità “disarmata” è ignorata, disprezzata o oggetto di attacchi.
E noi? Noi, cittadini di Paesi relativamente ben messi e relativamente stabili, come viviamo questa situazione? Ho l’impressione che il sentimento più diffuso di fronte all’orrore delle tragedie legate ai conflitti, con la fame e le malattie che portano con sé, sia una sorta di smarrimento: ci sentiamo impotenti per la vastità e per la crudezza dei problemi. Purtroppo, dalla percezione di impotenza al tentativo dell’indifferenza il passo è breve. Credo invece che questo strano “compleanno” della fine della Seconda guerra mondiale e dell’inizio delle Nazioni Unite vada capito meglio e offra spunti per guardare con speranza – che non significa ottimismo – al presente e al futuro.
Da un lato, le dolorose vicende dei conflitti degli ultimi anni fanno purtroppo dubitare che la Seconda guerra mondiale sia davvero “finita”. Certamente non è finita nel 1945 per i sopravvissuti, la cui vita è stata comunque sconvolta, specie per quelli che si sono trovati dalla parte “sbagliata” di certi confini. Anche la Guerra fredda, che per decenni è stata fin troppo calda in molte aree del mondo, non è finita; le vicende più recenti hanno riportato una politica di potenza bruta, impersonata da “uomini forti”, spregiudicati e proni alla menzogna. La «terza guerra mondiale a pezzi» non è un’iperbole, ma una realtà, in un mondo iperconnesso e polarizzato dove la baruffa prevale e la risoluzione dei conflitti (anche quelli domestici, quasi “casalinghi”) sembra essere un’arte dimenticata.
Dall’altro lato (e questa è una buona notizia) le istituzioni di collaborazione internazionale che conosciamo non sono tutte “iniziate” nel 1945 con la Carta delle Nazioni Unite. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, secondo l’acronimo inglese) opera dal 1919 come istituzione internazionale tripartita, dove si incontrano non solo i governi, ma anche i sindacati e i rappresentanti delle imprese di ogni Paese (bellissima la storia della cooperazione fra Ilo e Santa Sede, specie sul “lavoro dignitoso”). La cooperazione internazionale sanitaria si intreccia lungo tutto il XIX secolo con le scoperte scientifiche e le varie politiche nazionali; viene formalmente recepita dalla Lega delle Nazioni, ben prima del 1948, anno di costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Si potrebbero fare altri esempi.
Perché mi sembrano annotazioni importanti? Perché è utile ricordare che la vita delle istituzioni internazionali, pur scandita da passaggi formali e risentendo delle alterne vicende della “grande” storia, esprime realmente il tessuto delle piccole storie di vita delle persone che quelle istituzioni hanno e costruito e abitato.
I processi sono davvero più importanti dei loro singoli esiti. Dunque, né la guerra, né la collaborazione internazionale sono finite e bisogna far tesoro di ogni buon inizio, immedesimandosi nelle sue ragioni e rivivendo le sue speranze di bene, per essere pronti a re-iniziare anche oggi. Non possiamo negare la crisi del multilateralismo, ma è comunque possibile e doveroso immaginare e realizzare politiche e azioni internazionali capaci di esplorare percorsi per una possibile migliore convivenza fra popoli e fra nazioni. Si tratta di quel «multilateralismo dal basso» di cui parla papa Francesco (Laudate Deum, 38) che non è fantasia, ma concreta possibilità di azione per associazioni, organizzazioni, scuole, università, diocesi.
Dovremmo essere ormai consapevoli che non si vive del solo binomio Stato-mercato, né a livello locale né a livello globale. In un mondo multipolare, servono strumenti nuovi di multilateralismo, non una improbabile riforma dei vecchi, ma una loro profonda riconfigurazione costruita su un robusto dialogo internazionale: «Dove persone impegnate dei Paesi più diversi si aiutano e si accompagnano a vicenda» si possono generare «spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale» (Laudate Deum, 43).
Qual è la tua reazione?






