Sunnei: “Preferiamo investire su esperienze reali anziché sui social media”
I modelli che sfilano per Sunnei non si limitano a camminare lungo la passerella. È possibile debbano lanciarsi sulla folla, correre veloci appena usciti da un taxi, essere giudicati dagli invitati muniti di palette come nei talent show televisivi in prima serata. Il marchio fondato undici anni fa da Loris Messina e Simone Rizzo non si limita a presentare le proprie collezioni ma scardina il concetto tradizionale di fashion show. Tra gli appuntamenti più attesi della Milano fashion week, le sfilate di Sunnei sono spesso delle esperienze immersive intrise di messaggi che persistono oltre l’applauso finale. Il nuovo hub milanese in via privata Pietro Cironi rispecchia perfettamente l’anima poliedrica del brand. Gli oltre 200 metri quadrati in zona Argonne comprendono il flagship store, un café e una galleria. Il building, già parzialmente adibito a headquarter, ha aperto lo scorso marzo e sostituisce la boutique in via Vela. Alcune sfilate, come quella per l’autunno/inverno 2025-26, sono state allestite in quello che oggi i founder definiscono “a concept store with no concept”. Incontriamo Rizzo e Messina proprio all’interno del nuovo hub, impossibile distinguere le loro dichiarazioni che, proprio come i nuovi spazi, sono un flusso di idee, riflessioni e progetti difficili da catalogare.
Cosa rappresenta Sunnei Store Café Gallery?
È in realtà l’evoluzione di quello che avevamo già; unisce tutte le nostre esigenze oltre a quelle commerciali. Adesso all’interno dell’headquarter è ancora più chiaro, il café è gestito da ragazzi che fanno questo di professione. La galleria l’abbiamo chiamata così per ironizzare sul concetto di spazio multifunzionale, dato che il discorso di concept store è già stato abbastanza spremuto. Questa è una scatola all’interno della quale sono presenti tutti i nostri elementi oltre ai vestiti.

Ancor prima che il termine fosse in voga, in maniera a volte anche eccessiva, Sunnei è sempre stato un ‘lifestyle brand’ perché oltre a essere un marchio di abbigliamento proponete anche oggetti di design, avete una web radio, firmate capsule collection anche con realtà diverse, da Camper a Super by Retrosuperfuture fino a CC-Tapis. Recentemente avete debuttato nel segmento skincare.
Non siamo designer, abbiamo iniziato senza l’idea di creare un marchio di moda. L’interesse era creare una parola, un movimento partendo da quello che avremmo voluto mettere dentro, oltre a ‘lifestyle’ il termine ‘community’ è praticamente sinonimo di ciò che abbiamo sempre fatto questo. Poi siamo diventati alla moda ma in realtà abbiamo fatto un po’ il processo inverso. È così che lavoriamo, abbiamo sempre bypassato il sistema. Dopo la prima collezione non abbiamo destinato il budget per fare campagne sulle riviste, eravamo invece interessati a lavorare coi marketplace e Farfetch non esisteva nemmeno. Abbiamo sempre pensato a come potenziare la nostra community e fare in modo che avesse tutto quello di cui abbiamo bisogno, in modo molto estremamente naturale. Oltre alla moda abbiamo anche realizzato progetti di riqualificazione urbana come la sfilata nel quartiere Rubattino o quella nella Galleria Lia Rumma per i nostri dieci anni, un luogo sacro a Milano. La radio è una piattaforma audiovisiva che ingloba la nostra ricerca musicale, ma dà anche la possibilità agli utenti di caricare i propri contenuti video, quindi i contenuti video che vanno in rotazione all’interno della piattaforma sono generati dalle persone che usufruiscono della radio.

Le vostre sfilate sono sicuramente tra quelle che incuriosiscono di più gli addetti ai lavori perché spesso avete in qualche modo anteposto la modalità di presentazione alla presentazione stessa.
Le sfilate sono esattamente l’espressione del momento che stiamo vivendo e seguono il processo creativo che abbiamo rispetto allo sviluppo delle collezioni. Le nostre collezioni crescono con noi; ad esempio quando i ragazzi hanno sfilato qui dentro lanciandosi sul pubblico per noi era un momento di catarsi liberatorio perché in realtà la sfilata non potevamo neanche farla. Il momento in cui tutti correvano era legato alla pandemia appena finita, ci si augurava di stracciare il tempo e fare in modo che le persone si calmassero un attimo, in realtà tutti stavano scappando alla sfilata successiva! Quando abbiamo compiuto 10 anni, e per noi sono sembrati 100, abbiamo fatto sfilare delle persone che non avevano nessuna età specifica. La sfilata con i gemelli è stato un altro show in cui volevamo sdoppiare l’identità e fare un processo di trasformazione da persona normale a persona. Le palette per votare i look erano legate all’ansia di essere giudicati costantemente online quindi l’abbiamo proprio messa in scena. L’ultimo show per l’apertura del building, con i modelli che sfilano portando le shopping bag, è stata allestita nel momento in cui i negozi non vendono neanche se regalano la merce. Abbiamo voluto mettere in scena l’opposto. In questo momento abbiamo aperto uno spazio in cui tutti stanno arrancando per trovare delle soluzioni alternative. Noi, anziché fare una sfilata spendendo un milione di euro, cerchiamo di rendere tutto molto più più efficiente, più efficace.

Rispetto a 10 anni fa, come è cambiato secondo voi la fashion week di Milano e, in generale, per designer indipendenti come voi esserne parte?
Da ragazzi pensavamo alla fashion week come a un sogno e lontanissima da noi, c’era una magia intorno, ora invece è un po’ fiacca, ce ne siamo resi conto anche parlando con i ragazzi, le persone che lavorano con noi.
Avete mai pensato di sfilare in altre città?
No, anche se ci è stato chiesto varie volte abbiamo sempre preferito restare qui; peraltro in città come Parigi ci sono più eventi e sarebbe più difficile emergere.
Come vi spiegate l’eco giornalistico che Sunnei riscuote soprattutto all’estero?
È così anche perché il nostro cliente non è solo italiano, abbiamo sempre parlato al mondo riscuotendo interesse dall’America e altri Paesi. Preferiamo la qualità alla quantità, i nostri show, soprattutto, sono per pochi ospiti, sono per quelli che ci seguono sin dall’inizio o le persone che capiscono quello che stiamo facendo, è un modo per ampliare la nostra community che è molto coesa. Per il rovescio della medaglia è interessante è che gli show diventino organicamente virali un effetto che tutti si augurano anche se non è il nostro obiettivo.
In un’intervista al New York Times, avete definito “morti” i social media. In che senso?
Nel senso che è un mezzo che noi conosciamo alla perfezione e ormai ci rendiamo conto non avere più alcun valore, è fine a sé stesso. Preferiamo quindi investire in esperienze reali da comunicare digitalmente anziché creare contenuti digitali, anche in questo caso preferiamo la qualità alla quantità. Fino a qualche anno fa realizzavamo dei contenuti ad hoc per i social perché avevano una risonanza più lunga, adesso potrebbe durare anche solo un paio d’ore. Tutti fanno tutto, non è solo un tema di ecologia digitale ma anche una questione strategica.

Avete inaugurato lo spazio con una mostra dell’artista Anastasia Sosunova. Come nascono queste sinergie? Come scegliete i progetti che ospitate in galleria?
Sono persone con cui collaboriamo, in maniera molto spontanea, che conosciamo già. Sono persone simili ma con cui magari non abbiamo ancora avuto la possibilità di creare qualcosa insieme. L’evento è anche digitale perché viene inserito anche online, ha una durata maggiore, quello che a noi interessa è questo, comunicare qualità e non bruciare tutto in poco tempo. Fare in modo che rimanga cosi che migliaia di persone possano usufruirne e sentirsi qui con noi.
Come mai avete scelto di debuttare nello skincare?
Volevamo farlo da un po’ e sta funzionando benissimo a livello commerciale. Il partner è il marchio spagnolo Mid/night 00.00 e sono molto aperti a esplorare. Le collaborazioni ci permettono di aprirci ad altri mondi stimolandoci ulteriormente.

C’è qualche altra categoria merceologica in cui vorreste entrare?
In realtà probabilmente abbiamo già toccato tantissimi ambiti, vorremmo avere la possibilità di esplorare a fondo alcune categorie di prodotti che non siamo riusciti per tempistiche o costi di sviluppo molto alti.
Quali sono i vostri best seller?
Ci sono pezzi, come gli orecchini ‘Rubberized’ che sono ovunque, non hai mai avuto un calo sin dall’inizio.
Dopo Milano dove vorreste aprire un altro spazio?
Abbiamo comunque avuto sempre l”idea di aprire a New York perché ci rispecchia molto la tipologia di persone, pensiamo sarebbe un luogo giusto per il secondo step. Ma senza fretta. Come sempre, prima la qualità.
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