Gaza. Aiuti Usa per la “carità strategica”

Giugno 25, 2025 - 22:00
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Gaza. Aiuti Usa per la “carità strategica”

di Giuseppe Gagliano

Mentre Gaza sprofonda in una crisi umanitaria senza precedenti, gli Stati Uniti decidono di finanziare con 30 milioni di dollari la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un’entità “privata” attiva nella distribuzione degli aiuti, ma tutt’altro che neutrale. Lo fanno bypassando i consueti meccanismi multilaterali e persino le minime garanzie di trasparenza. E lo fanno nonostante le denunce, puntuali e documentate, secondo cui decine, se non centinaia di palestinesi sarebbero morti proprio attorno ai punti di distribuzione gestiti da GHF.
La cifra stanziata da USAID è significativa, ma ancora più significativo è il metodo. Il finanziamento è stato approvato in via prioritaria su direttiva della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, senza sottoporre la GHF ai controlli amministrativi di routine per le nuove ONG. Niente audit preliminari, niente valutazione sui rischi di collusione con gruppi estremisti: un’esenzione totale che solleva più di un interrogativo. Si affida così la gestione degli aiuti a un’organizzazione che non pubblica i propri bilanci, che collabora con contractor militari e che si appoggia a una società logistica guidata da un ex ufficiale della CIA.
Non si tratta di un’eccezione tecnica, ma di un’operazione politica. Il progetto, secondo fonti israeliane e statunitensi, mira a creare un sistema parallelo a quello delle Nazioni Unite, svuotando di fatto il ruolo dell’UNRWA e delle agenzie ONU nel territorio. L’obiettivo, più che umanitario, sembra essere quello di garantire un controllo diretto, e armato, del flusso degli aiuti. E infatti, come ha denunciato l’ONU, nei pressi dei punti di distribuzione militarizzati sono avvenute vere e proprie stragi: più di 400 palestinesi uccisi da colpi d’arma da fuoco o granate, nella speranza di ricevere un sacchetto di cibo.
La retorica della “sicurezza” e della “distribuzione efficace” maschera un’altra verità: i cosiddetti “siti sicuri” si trovano tutti nel sud della Striscia, mentre il nord, devastato dalle operazioni israeliane, resta escluso. Questo significa che per accedere agli aiuti, chi vive ancora al nord deve essere spinto a fuggire, contribuendo di fatto a una forma di trasferimento forzato. Una pratica che, secondo le convenzioni internazionali, può configurarsi come crimine contro l’umanità.
La GHF respinge ogni accusa e rivendica la distribuzione di 40 milioni di pasti, negando qualsiasi episodio di saccheggio dei propri camion. Ma non dice nulla sugli attacchi israeliani ai convogli dell’ONU, né sulle granate lanciate sulla folla affamata. E anzi, invita sarcasticamente le Nazioni Unite a “smettere di litigare” e a collaborare.
A chi giova, allora, tutto questo? Non ai civili di Gaza, che continuano a morire tra le macerie e la fame. Ma a un nuovo sistema di “aiuti armati”, che trasforma l’assistenza umanitaria in un mezzo di pressione, controllo e ingegneria demografica. Lo ha denunciato l’UNRWA parlando di “aid washing”: un’operazione di cosmesi morale che nasconde l’assedio sotto il tappeto della carità organizzata. E lo ha ribadito l’ONU, che definisce l’intero impianto una “foglia di fico per ulteriori violenze e sfollamenti”.
Nel gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia aveva chiesto la protezione dei civili e la piena apertura dei corridoi umanitari. Ma nel gennaio 2025, 35 ONG attive a Gaza hanno certificato l’opposto: Israele ha continuato a ostacolare l’accesso e a colpire i centri di distribuzione. In questo contesto, il finanziamento americano alla GHF non è un semplice contributo a un progetto umanitario. È una precisa scelta geopolitica: ritirare il sostegno alla neutralità del diritto umanitario internazionale e sostituirlo con un modello militarizzato di “carità strategica”.

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Redazione Redazione Eventi e News