L’internazionale illiberale è la nuova rete globale contro la democrazia

Dicembre 25, 2025 - 14:30
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L’internazionale illiberale è la nuova rete globale contro la democrazia

Negli ultimi trent’anni il mondo si è abituato a pensare la globalizzazione come un processo che, nel bene o nel male, avrebbe favorito la diffusione della democrazia. Oggi in realtà accade l’opposto. A muoversi con maggiore coordinamento, ambizione e creatività sono le forze che mirano a svuotare le istituzioni democratiche dall’interno. Non si tratta di un nuovo asse ideologico, né di una cospirazione centralizzata, ma di una rete transnazionale di regimi autoritari, governi illiberali, partiti antisistema e attori privati che cooperano per rendere l’autocrazia più stabile, più legittima e più contagiosa. È una «internazionale illiberale», l’hanno definita così Nic Cheeseman, Matías Bianchi e Jennifer Cyr in un lungo articolo su Foreign Affairs.

L’analisi dei tre autori poggia su un’evidenza statistica incontrovertibile. Il mondo è immerso in una recessione democratica che dura ormai da oltre venticinque anni. Secondo i dati del Varieties of Democracy Institute, nel solo 2025 quarantacinque Paesi hanno compiuto passi significativi verso l’autocratizzazione, mentre appena ventinove possono oggi essere considerati democrazie pienamente funzionanti. Il dato più allarmante, però, è nel tendenza di lungo periodo: laddove in passato le democrazie tendevano a riprendersi dopo fasi di arretramento, oggi le regressioni diventano croniche. Dal 1994, spiegano gli autori, diciassette dei diciannove Paesi che erano riusciti a recuperare un livello democratico precedente sono ricaduti nell’autocratizzazione entro cinque anni. Le istituzioni democratiche non “rimbalzano” più: restano strutturalmente indebolite.

A questo si aggiunge il peso sistemico delle autocrazie. I regimi autoritari e illiberali rappresentano oggi oltre il settanta per cento della popolazione mondiale e quasi la metà del Pil globale in termini di parità di potere d’acquisto, una quota raddoppiata rispetto all’inizio degli anni Novanta. Non si tratta quindi di un fronte residuale o marginale, ma di un blocco crescente per risorse, capacità tecnologica e influenza geopolitica. In questo contesto, il declino della cooperazione tra democrazie e la perdita di credibilità del modello liberale rendono sempre più facile per i regimi autoritari consolidarsi e sempre più difficile contrastare il backsliding democratico.

È su questo terreno che si è sviluppata quella che Cheeseman, Bianchi e Cyr definiscono «internazionale illiberale»: non un’alleanza ideologica compatta sul modello del Comintern sovietico, ma una galassia di reti sovrapposte che collegano autocrazie consolidate, governi elettorali illiberali, partiti antisistema e attori economici privati compiacenti. Ciò che unisce questi soggetti non è la collocazione politica – possono essere di destra o di sinistra – ma l’ostilità verso i vincoli del costituzionalismo liberale: separazione dei poteri, tutela delle minoranze, libertà civili, stato di diritto.

Questa cooperazione assume forme molteplici. Esiste innanzitutto un nucleo duro di Stati autoritari – Cina, Russia, Iran, Corea del Nord, Venezuela – che condividono intelligence, protezione diplomatica e sostegno economico, neutralizzando sanzioni e pressioni occidentali. I veti incrociati alle Nazioni Unite, gli accordi militari opachi e i canali finanziari alternativi contribuiscono a creare un ambiente internazionale permissivo, in cui la repressione interna diventa una pratica normalizzata e sempre meno costosa sul piano politico.

Accanto a questo asse, operano potenze regionali illiberali come Turchia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, che usano strumenti militari, investimenti e aiuti finanziari per rafforzare regimi amici e soffocare aperture democratiche. Dai droni turchi impiegati in conflitti che consolidano governi autoritari, al sostegno emiratino a milizie responsabili di crimini di guerra, fino al ruolo saudita nel bloccare le transizioni nate dalle Primavere arabe, emerge un pattern chiaro: la stabilità autoritaria viene premiata, la democratizzazione scoraggiata.

Un elemento cruciale di questa rete è rappresentato dai flussi finanziari illeciti. Schemi di riciclaggio, fondazioni opache, prestiti bancari politicamente orientati e investimenti immobiliari fungono da carburante per partiti e movimenti illiberali anche all’interno delle democrazie occidentali. I casi dell’Azerbaijan Laundromat o del finanziamento ungherese al partito spagnolo Vox mostrano come la corruzione transnazionale non sia un effetto collaterale, ma una componente strutturale dell’internazionale illiberale.

Queste reti non si limitano a sostenere i regimi autoritari esistenti: intervengono attivamente nella vita politica delle democrazie. Russia e Cina, in particolare, hanno sviluppato capacità sofisticate di interferenza informativa e politica, sfruttando media statali, social network, organizzazioni culturali e diaspora. Campagne di disinformazione, siti clone dei principali giornali europei, operazioni psicologiche pensate per amplificare divisioni interne e screditare governi democratici sono diventate strumenti ordinari di politica estera.

L’obiettivo non è sempre quello di imporre un’alternativa autoritaria esplicita, ma di erodere fiducia nelle istituzioni, nei media, nelle elezioni, nell’idea stessa di verità condivisa. La proliferazione di messaggi che relativizzano i diritti umani, presentano la democrazia come inefficiente o ipocrita, e dipingono l’Occidente come moralmente decadente crea un terreno fertile per il successo di forze populiste e antisistema.

In questo ecosistema, conferenze internazionali, think tank, influencer digitali e piattaforme social giocano un ruolo decisivo. Eventi come il CPAC in Ungheria o i raduni Make Europe Great Again non sono semplici momenti simbolici, ma nodi di una rete che produce legittimazione reciproca, condivisione di strategie e normalizzazione di contenuti estremi. È qui che l’internazionale illiberale mostra la sua forza più insidiosa: la capacità di operare simultaneamente dentro e fuori le democrazie, sfruttandone le aperture per svuotarle dall’interno.

L’errore delle democrazie è continuare a considerare l’autocratizzazione come una deviazione temporanea, un incidente di percorso destinato a correggersi da solo. L’analisi di Foreign Affairs mostra invece che il vantaggio competitivo si è spostato strutturalmente dalla parte dell’illiberalismo: è più coordinato, più spregiudicato, più disposto a usare denaro, tecnologia e disinformazione come strumenti politici. Finché le democrazie resteranno ancorate a una difesa procedurale dell’ordine liberale, mentre i loro avversari costruiscono reti transnazionali aggressive e flessibili, il risultato non potrà che essere un’ulteriore erosione dello spazio democratico. Il problema, oggi, non è solo salvare la democrazia in casa propria, ma imparare di nuovo a difenderla nel mondo.

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