Non-proliferazione, l’allarme del Sipri: “Il mondo verso il riarmo nucleare”

Bruxelles – L’era del disarmo e della non-proliferazione nucleare potrebbe essere finita. Secondo l’ultimo rapporto di un autorevole centro studi scandinavo, il ritmo con cui gli Stati si stanno riarmando sta superando quello con cui negli ultimi anni i detentori di testate atomiche stavano smantellando i propri arsenali. È la prima volta che si assiste a questo trend – i cui protagonisti sono soprattutto Usa e Russia – dalla fine della Guerra fredda.
Nel suo rapporto annuale sullo stato della sicurezza globale e degli armamenti pubblicato oggi (16 giugno), l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) mette nero su bianco che “sta emergendo una nuova e pericolosa corsa agli armamenti nucleari in un momento in cui i regimi di controllo degli armamenti sono gravemente indeboliti“.
Stando ai calcoli del Sipri, a inizio 2025 l’arsenale nucleare mondiale ammontava a 12.241 unità, concentrate nelle mani di nove Stati: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele. Questa cifra mette insieme le testate pronte ad un potenziale utilizzo – un totale di 9.614 ordigni, di cui 3.912 già armati su missili e aerei (circa 2.100 di questi si troverebbero in stato di “alta allerta operativa”) e 5.702 conservati in depositi – e quelle ritirate (cioè per così dire messe in pensione, ma non smantellate), attestatesi a quota 2.627. La quasi totalità di queste testate appartengono a Washington e Mosca.
Durante gli ultimi tre decenni, grazie agli sforzi compiuti nel quadro del regime globale di non-proliferazione, le scorte planetarie di armi nucleari erano andate progressivamente diminuendo. Ma quel trend si è fermato e, anzi, rischia ora di invertirsi a causa del rallentamento del disarmo e della parallela accelerazione dei programmi di ammodernamento degli arsenali.
“L’era della riduzione del numero di armi nucleari nel mondo, durata dalla fine della Guerra fredda, sta volgendo al termine“, osserva l’analista Hans Kristensen. Inoltre, continua, oggi assistiamo anche “all’inasprimento della retorica nucleare (si pensi alle minacce del Cremlino di usare ordigni atomici in Ucraina e alla recente escalation tra Israele e Iran, ndr) e all’abbandono degli accordi sul controllo degli armamenti“.
Per il direttore del Sipri Dan Smith, “il controllo bilaterale degli armamenti nucleari tra Russia e Stati Uniti è entrato in crisi alcuni anni fa” ed è ormai prossimo al capolinea. Il New Start, l’ultimo accordo di non-proliferazione stipulato da Washington e Mosca nel 2010, rimarrà formalmente in vigore fino al febbraio 2026. Ma nessuna delle due parti appare intenzionata a rinnovarlo o a sostituirlo con altri strumenti vincolanti. Il presidente statunitense Donald Trump non intende legare le mani al Pentagono a meno che anche la Cina non accetti di ridurre il proprio arsenale, una prospettiva piuttosto irrealistica.
Al contrario, secondo Smith “si sta preparando una nuova corsa agli armamenti che comporta molti più rischi e incertezze rispetto alla precedente“, cioè quella tra la Seconda guerra mondiale e il crollo dell’Unione sovietica. A cambiare le carte in tavola è naturalmente il livello dello sviluppo tecnologico, guidato dai progressi nel campo dell’intelligenza artificiale, delle capacità cyber, dei sistemi missilistici, delle capacità spaziali e delle tecnologie quantistiche.
Del resto, è evidente che sta crescendo il numero di Stati interessati a sviluppare un proprio programma nucleare o a mettere in condivisione le scorte dei Paesi alleati. È il caso, ad esempio, delle testate russe dislocate in Bielorussia (sulla falsariga degli ordigni statunitensi ospitati dai membri della Nato, come l’Italia), o delle ipotesi di “estensione” dell’ombrello nucleare franco-britannico al resto del Vecchio continente.
In termini numerici, Usa e Russia detengono attualmente circa il 90 per cento delle armi atomiche mondiali. Per ora non si registrano grandi variazioni nella dimensione dei rispettivi arsenali, ma il Sipri evidenzia che entrambi i Paesi stanno mettendo in atto vasti programmi di modernizzazione delle proprie scorte, che porteranno verosimilmente ad un aumento sia nel numero complessivo delle testate sia nella loro varietà.
L’arsenale che cresce più velocemente è quello di Pechino, con un centinaio di nuovi ordigni all’anno dal 2023. Ad oggi, certifica l’Istituto di Stoccolma, la Repubblica popolare dispone di almeno 600 testate nucleari e potrebbe arrivare a disporre di circa un terzo di quelle di Usa e Russia entro il 2035. Pure lo stock del Regno Unito dovrebbe crescere, così come quelli dell’India e, potenzialmente, anche del Pakistan, con tutti i rischi che derivano dalle tensioni mai sopite tra i due vicini.
Si stima inoltre che la Corea del Nord disponga di una cinquantina di testate, che abbia abbastanza materiale fissile per produrne altre 40 e che stia accelerando i programmi di arricchimento dell’uranio. Infine, nonostante non abbia mai ammesso pubblicamente di possedere armi nucleari, pare che anche lo Stato ebraico stia espandendo e modernizzando il proprio arsenale, anche se non sono disponibili numeri attendibili al riguardo.
Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, non ha direttamente confermato che Teheran stia sviluppando la bomba – come sostiene Tel Aviv, reiterando un’accusa che muove alla Repubblica islamica da decenni senza mai aver fornito prove – ma ha ammesso di non poter garantire che il programma di arricchimento dell’uranio degli ayatollah sia ad esclusivo uso civile, come previsto dagli accordi internazionali.
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