Serbia. Accuse della Russia di sostegno all’Ucraina
di Giuseppe Gagliano –
La guerra in Ucraina si rivela sempre più una guerra sistemica, capace di ridisegnare alleanze, far saltare le ambiguità diplomatiche e costringere ogni attore regionale a dichiarare apertamente la propria posizione. Il caso della Serbia è emblematico. Il Servizio di Intelligence estera russo (SVR) ha rotto ogni indugio e ha accusato apertamente Belgrado di forniture clandestine di munizioni all’esercito ucraino, nonostante le dichiarazioni ufficiali di neutralità da parte del governo serbo.
Nel comunicato stampa diffuso dal SVR, significativamente intitolato “L’industria militare serba tenta di sparare alla Russia alle spalle”, si parla senza mezzi termini di centinaia di migliaia di razzi e oltre un milione di munizioni leggere che, prodotte da aziende serbe, sarebbero finite nelle mani delle forze armate ucraine.
Secondo i servizi russi, la strategia adottata da Belgrado per aggirare l’impegno formale alla neutralità sarebbe basata su un uso strumentale dei Paesi intermediari, in particolare membri della Nato(Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria), ma anche Stati africani “inusuali”. Il meccanismo sarebbe quello classico delle triangolazioni: falsi certificati di utilizzatore finale consentirebbero alle aziende belliche serbe di vendere formalmente a clienti terzi, con la consapevolezza che il carico finale raggiungerà Kiev.
A essere chiamate in causa sono grandi nomi dell’industria militare serba, come Yugoimport SDPR, Krusik, Prvi Partizan, Zenitprom e Sloboda, protagonisti – secondo Mosca – di un “nastro trasportatore di morte” ben organizzato e radicato nel cuore dei Balcani.
L’indignazione del SVR non si limita al dato tecnico. L’accusa rivolta alla Serbia è rivestita di un linguaggio emotivo e identitario. Si parla di tradimento e di fratellanza dimenticata, evocando momenti chiave della storia condivisa tra russi e serbi: dalla liberazione dal dominio ottomano alla Prima guerra mondiale, fino ai bombardamenti NATO del 1999 e alla tragedia del Kosovo. Secondo Mosca, la Serbia ha dimenticato chi l’ha soccorsa nei momenti più bui della sua storia e ora vende armi per uccidere “popoli slavi fratelli”.
Questo tipo di narrativa è particolarmente efficace per il pubblico interno russo, ma si rivolge anche a quei settori del mondo ortodosso e conservatore che vedono nella Russia il baluardo di un ordine post-occidentale.
Durante un tour stampa organizzato nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, il giornalista serbo Milos Kostadinovic ha rafforzato, almeno retoricamente, la posizione russa. Intervistato dall’agenzia TASS, ha affermato che Belgrado non è in grado di contrastare la NATO nella questione del Kosovo e avrebbe quindi bisogno dell’intervento russo. Un passaggio che riafferma la linea del nazionalismo serbo filo-russo, ma che stride con le accuse rivolte dallo stesso Cremlino all’apparato industriale serbo.
Kostadinovic ha inoltre criticato l’azione occidentale, paragonando la strategia della NATO in Ucraina a quella adottata nei Balcani negli anni ’90: una logica di “divide et impera”, utile a mettere “fratello contro fratello”. Ma il giornalista ha anche denunciato la manipolazione mediatica dell’opinione pubblica, affermando di aver trovato nel Donbass una realtà “diversa da quella raccontata dai media occidentali”.
La vicenda mostra una Serbia dilaniata da ambiguità strategiche: da un lato, rivendica la propria vicinanza culturale e storica alla Russia; dall’altro, cerca un inserimento progressivo nel sistema euro-atlantico, coltivando relazioni economiche, militari e industriali con i Paesi NATO.
Il caso delle munizioni è solo la punta dell’iceberg: l’apparato industriale bellico serbo è economicamente dipendente dai mercati europei e internazionali. Una parte rilevante dell’export militare serbo passa, direttamente o indirettamente, attraverso filiere controllate o finanziate da soggetti occidentali. In questo scenario, la neutralità diventa solo una narrazione di comodo.
La denuncia russa arriva mentre l’Unione Europea moltiplica gli sforzi per rianimare il dialogo tra Belgrado e Pristina, ormai in stallo cronico. Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, in visita a Pristina il 15 maggio, ha ribadito che “l’allargamento ai Balcani occidentali è il più importante investimento geopolitico dell’Ue”. Ma ha anche ricordato che “Kosovo e Serbia devono rispettare gli impegni presi”. Parole che, nel contesto attuale, suonano come un avvertimento.
Il Kosovo, con uno status di “candidato potenziale” all’UE, rimane l’ultimo degli Stati balcanici a sperare nell’ingresso. Ma senza un riconoscimento reciproco tra Belgrado e Pristina, l’intero processo resta bloccato. E ogni ambiguità strategica della Serbia diventa automaticamente un ostacolo alla politica di allargamento europea.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




