Vittima di violenze, uccise il marito e finì in carcere, Tommasina Crugliano: “Perché ho raccontato la mia storia in ‘L’ingenuità che uccide’”

Dicembre 5, 2025 - 22:33
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Vittima di violenze, uccise il marito e finì in carcere, Tommasina Crugliano: “Perché ho raccontato la mia storia in ‘L’ingenuità che uccide’”

Com’è possibile che in molti si avvicinano, chiedono, si presentano, si complimentano con una persona condannata a 12 anni di carcere per omicidio. “Ho sofferto tanto, se ho scelto di scrivere la mia storia è perché c’è ancora troppa violenza sulle donne”, commenta Tommasina Crugliano a L’Unità che in L’ingenuità che uccide (Graus Editore) ha raccontato di come, quando e perché è arrivata a uccidere con una raffica di colpi di pistola suo marito ed è finita in carcere.

Aveva 12 anni, in quella Cirò Marina in provincia di Crotone colpita dalla mareggiata del 1972: in una di quelle case sul mare devastate la prima violenza sessuale che era ancora una ragazzina, il matrimonio obbligato, l’emigrazione al nord, le violenze domestiche. Crugliano, che adesso ha quasi 66 anni, nel suo libro racconta le botte, l’isolamento, quelle volte che non le era permesso di parlare a telefono con la famiglia, quelle volte che non mangiava niente fino a sera, quando per la disperazione si era lasciata andare a gesti autolesionistici. All’epoca lo stupro era un reato contro la morale e non contro la persona, la legittima difesa sarebbe stata riformulata soltanto nel 2006.

Anni fa era in carcere a Piacenza, in mezzo a giornate lunghissime in un tempo interminabile tra Beautiful, partite a scacchi, Il Bagaglino, lavoro a maglia, i pidocchi, la Bibbia, quando la vigilante Carla le aveva raccontato della sua relazione tossica. Come attizzare un fuoco ancora vivo sotto la cenere: “Ho ucciso mio marito, prima che lui ammazzasse me”. Carla  le aveva creduto: non succedeva così spesso. Non un collega, una nuova amicizia che pensasse fosse possibile che quella donna minuta, educata, posata avesse potuto uccidere un’altra persona. “’Racconti un sacco di palle’, mi dicevano. Poi piano piano capivano che non ero una bugiarda”. E invece. “Questo non è un morto, qui c’è un colabrodo”, avevano esclamato i Carabinieri arrivando in quella casa a Canegrate, in provincia di Milano.

“Quando è successa il caso uscì su tutti i giornali possibili e immaginabili, anche in America. Quando sono uscita ho bruciato tutto”. Dall’incontro con la guardia carceraria Carla Covati fino a quello con l’attrice Francesca Brandi l’idea del libro, curato dall’editor Alice Balistreri. È una storia sgravata dalla retorica, non priva di colpi di scena oltre alle violenze. Rammenta, come aveva fatto C’è ancora domani, di tutta la violenza sommersa nelle famiglie oltre le eroine delle Storie della Buonanotte per Bambine Ribelli. Di come più di una vita e di una famiglia possano andare distrutte. E ricorda che la violenza di genere, la violenza domestica, la violenza sessuale non sono mai soltanto una questione privata. “È stato un fatto che ha fatto scalpore, sul giornale scrivevano della ‘Sposina che viene dal Sud’. 50 anni fa era difficile che una donna si ribellava”, ricorda Crugliano che oggi è madre, nonna, vive e lavora in Germania. Si è rifatta un’altra vita. L’ingenuità che uccide sarà anche tradotto. Altre conseguenze giudiziarie, la discriminazione verso i meridionali, gli anni in carcere lasciano spazio per un sequel.

Perché ha voluto scrivere la sua storia?

Perché ancora oggi ci sono troppi casi di violenza sulle donne, femminicidi. Per raccontare la mia storia e lasciare una testimonianza per quando non ci sarò più.

Sperava che il matrimonio potesse migliorare la situazione, con il trasferimento a Canegrate invece cominciò l’incubo vero e proprio. Ha scritto: “Ricordo il senso di umiliazione, di inadeguatezza, di paura … mi sentivo sola e incapace di gestire la situazione […] Niente era come avevo immaginato. Chi era quell’uomo? Dov’era il ragazzo di cui mi ero innamorata?” Possibile che nessuno si sia accorto di queste violenze così esplicite ed evidenti?

Non avevo granché rapporti, nel nostro condominio vivevano soltanto altre due famiglie ed è successo tutto nel giro di otto mesi. Io mi vergognavo, ero isolata. E all’epoca lì ognuno si faceva i fatti suoi, i meridionali non erano ben visti infatti non avevamo trovato un appartamento da affittare, abbiamo dovuto comprarlo. O sentivano gridare, o sentivano rumori, non facevano niente insomma. E poi c’è anche incredulità in questi casi: mio marito era un grande lavoratore, non è detto che si possa credere sia possibile tanta violenza.

Sia suo padre che suo suocero avevano grandi dubbi su quel matrimonio. “Non so perché, ma io vedo la morte”, disse suo padre che non venne nemmeno al matrimonio. “Ma questa vi sembra una donna da sposare?”, disse invece suo suocero dopo il fidanzamento ufficiale. E invece atteggiamento diverso ci fu da parte delle donne, come mai?

Mio padre era un uomo moderno e ci aveva visto lungo. Avrebbe preferito magari che me ne andassi, che mi rifacessi una vita al nord perché – inutile che lo nascondiamo – cinquanta anni fa una donna che veniva lasciata da un uomo dopo aver avuto rapporti, per il paese non si sposava più. Veniva additata, ma a mio padre questo non gli interessava, gli interessava la mia felicità. Ma su tutto c’era il pudore.

In un passaggio ha raccontato che “anche quella volta decisi di fare la scelta sbagliata, spinta da un amore profondo e da una speranza perseverante che mi urlava di aspettare, di avere fede. La fede … quella sì che mi ha sempre salvata”. Perché ha scelto questo titolo?

Perché da ragazzina innocente, da ragazzina ingenua quale ero, a un certo punto mi sono ribellata. Ero una ragazzina buona. Quando sono finita in carcere pensavo mi avrebbero dato una divisa e attaccato la palla di ferro al piede, per farle capire. A quei tempi l’uomo quasi quasi poteva fare di te quello che voleva, potevi diventare proprietà del marito.

Ha scritto che: “A volte mi rendo conto che tendo sempre a giustificarmi, ad analizzare morbosamente le risposte che gli davo, i miei toni, i miei atteggiamenti nei suoi confronti, come se in qualche modo volessi convincermi che sì, andava bene il modo in cui gli parlavo, che non mi meritavo quello schiaffo”. Si è giudicata per questa ingenuità?

Mi sono afflitta tante volte, mi sono sempre data delle colpe che non ne avevo. Per non aver aperto gli occhi prima, per essermi sposata, per aver creduto in quell’amore. A volte pensavo: me lo merito pure. Ed è per questo che sono arrivata a gesti autolesionistici, mi sono massacrata e sono diventata completamente diversa. Carla (la guardia carceraria, ndr) mi aveva visto in condizioni terribili. Avevo solo un dente quando ero entrata in carcere, ero dimagrita tantissimo perché da mesi ormai mi nutrivo con solo una cannuccia inserita nel naso. Ho toccato il fondo e sono dovuta risalire.

Che ruolo ha avuto la fede?

Quella non l’ho mai persa, mi ci sono sempre aggrappata, ho sempre creduto anche se non sono una praticante che sta sempre in chiesa. Ho sempre creduto che c’è un dio che prima o poi ti fa risalire. Leggevo molto la Bibbia quando ero in carcere. E la mia famiglia è stata importantissima, mi ha sollevata.

Ha scritto: “Ero sicura che mio marito non ci fosse più, e quello non nego che mi dava un macabro senso di libertà […] ero in carcere, tra quattro mura fredde e spoglie, eppure mi sentivo libera come non lo ero mai stata”. Come concilia la sua fede con quello ha fatto – parliamo sempre di un omicidio – anche perché ne parla allo stesso tempo come di una condanna e come di una liberazione?

Mi ha aiutato a metabolizzare la mia colpevolezza. È stata anche una liberazione perché avevo l’animo così distrutto, dopo anni e anni di sofferenza. È brutto da dirsi perché gli volevo bene, ero innamorata, gli ho creduto. Non mi sento in colpa.

Cosa pensa quando torna a quei momenti, a quando ha premuto il grilletto?

A tratti provo incredulità pensando a quello che ho fatto: che sono stata io, che non farei male mai a niente e nessuno. A tratti non penso proprio niente, ho pagato quello che dovevo pagare. A un certo punto ho detto: è un passato. E quando sono uscita ho trovato un paese che mi ha accolta. Non mi hanno colpevolizzata, è una storia che ancora si racconta. Abbiamo fatto una bella presentazione quest’estate, tantissimi hanno comprato il libro. Su TikTok una ragazzina mi ha fatto una recensione, si chiedeva come avessi fatto a sopportare tutto.

Cosa le dice la gente quando si avvicina alle presentazioni?

Che è un libro bellissimo, non per come è scritto o per quello che ho passato, ma per il coraggio. È una storia attuale e universale anche se parliamo di 50 anni fa. Non è un libro facile.

Cosa dice oggi alle ragazze e alle donne che incontra?

Prima di tutto di non arrivare a quello che ho fatto io: ne va della tua vita. La mia storia è cominciata quando avevo 12 anni, mi sono sposata a 18, a 19 ero in carcere, dove ho perso 12 anni, ci sono rimasta fino ai 30 anni. Li ho buttati e non li recupero. Consiglio di non subire, di non sottovalutare neanche le parole. Anche se a volte mi dico che per quanto si può consigliare, fino a quando non ci si rende conte che non è amore ma possesso, la violenza non può finire.

Le è servito scrivere questo libro?

Ho buttato fuori quello che avevo dentro. Ho sofferto troppo, ho pagato abbastanza. Ho pagato con la vita, ho pagato con il dispiacere, ho pagato con il carcere, ho pagato con la sofferenza mia e della mia famiglia.

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