Che ne sarà della Francia?

Questo è un articolo de Linkiesta Magazine 03/25 – Senza alternativa. Si può acquistare qui.
Dopo decenni passati a corteggiare le prospettive della East Coast americana, la legione di italiani esterofili ha mestamente fatto i bagagli, indirizzando l’ultima occhiataccia a Donald Trump e mettendosi alla ricerca della location giusta dove far gravitare il proprio perenne senso d’insoddisfazione per il nostro Paese, i suoi vuoti culturali, la sua amnesia sociopolitica, la sempre più angosciosa sensazione d’italico soffocamento. E qui Parigi ha riproposto la sua candidatura, carica d’antiche glorie e formidabili miti del passato, e ha vinto facilmente a mani basse. Se New York City non vale più una trasvolata oceanica, la Ville Lumière emanava la suggestione giusta per attirare l’esodo degli insoddisfatti.
E in tanti, gemendo al momento della visione dei prezzi, hanno cominciato a cercare tra le offerte d’affitti e le occasioni di vendita negli arrondissement parigini tradizionalmente amati alle nostre latitudini, il Sesto, il Settimo, il Tredicesimo. La transumanza ha avuto luogo in tempi brevi, all’incirca lungo l’anno più o meno che ci divide dal secondo trionfo trumpiano, ma sta di fatto che la colonia di visitatori ricorrenti e di nostrani residenti part-time sotto la Torre Eiffel s’è ingrossata a vista d’occhio, dando luogo a un insediamento dalle nuove peculiarità, prodotte da un anelito a ritrovare il brivido della metropoli-totale che, ahimè, le nostre città ormai nemmeno sfiorano: la sensazione di vivere nel luogo dove le cose accadono, le idee nascono e il progresso pare a portata di mano.
Cosa meglio della Parigi superba, imperfetta ma vitalissima, in vetrina con gli ultimi Giochi Olimpici e con quei cartelloni culturali densi come formicai. Per cui… a Parigi! Con l’accortezza di mimetizzarsi con consapevolezza. Ed ecco un breve resoconto empirico di ciò in cui ci siamo imbattuti, tra entusiasmi, delusioni e rivelazioni.
Prima osservazione: Parigi è la Francia? Vale il discorso d’una parte per il tutto, nel tentativo di comprendere una realtà affine ma diversa, com’è per noi la Francia del 2025? La risposta è positiva. Visitare la provincia francese descrive una continua, maldisposta tensione verso la grande Capitale, che sormonta gli orgogli locali. Tutte dipende da Parigi, le decisioni che contano le si attendono dai palazzi del potere e raramente sono quelle auspicate. Però, già nelle prime settimane trascorse a Parigi, si percepiscono frammenti d’antico splendore, ma anche un sacco di nuvole scure. Perché noi italiani siamo un popolo polemico e portato al lamento. Ma Oltralpe ci surclassano, e hanno la mano più pesante della nostra.
E se è vero che da noi lo scoramento verso la politica tradizionale è accertato e a risvegliare le passioni ci hanno dovuto pensare le drammatiche cronache internazionali, in Francia la sensibilità popolare risponde in primo luogo a quanto che succede dentro i confini nazionali, dove le questioni irrisolte si sono accumulate, edificando una montagna di guai dalla quale calano slavine che travolgono i governi uno dopo l’altro, senza indurre cambiamenti degni di nota. E lo scontento monta, la rabbia cresce e allarga il raggio delle sue maledizioni. Un pulviscolo diffuso, che contamina i comportamenti e le relazioni quotidiane, in contraddizione con le apparenze.
Eccoli i francesi del presente, vanitosi e impauriti, nervosi e infelici. Un’impressionante percentuale di loro (addirittura l’ottantatré per cento) risponde ai sondaggi dichiarandosi pessimista riguardo al futuro del paese. Il quarantacinque per cento dei lavoratori si sente in “détresse psychologique” e un giovane su quattro si auto‑valuta affetto da sintomi di depressione.
Aprendo le conversazioni salta poi fuori prepotentemente che adesso esiste un vero nemico pubblico, o se volete chiamatelo capro espiatorio: sembra che tutti, nessuno escluso, detestino il presidente Emmanuel Macron – che pure è stato rieletto – e addossino a lui (e poi, nell’ordine, ai politici, ai ricchi e ai burocrati corrotti) la responsabilità della decadenza tangibile anche nelle strade migliori di Parigi, insolitamente sporche e mal curate.
Macron è genericamente il male, il sovrano distratto, innervosente e borioso. L’uomo da odiare. Il settantasette per cento dei francesi lo boccia senza remissione, ma il mistero è dove s’annidi il misero ventitré per cento che lo sostiene, perché non v’imbatterete mai in qualcuno che difenda l’operato del presidente, pur destinato a restare all’Eliseo ancora per diciassette mesi.
Allorché si arriverà alla temuta resa dei conti del 2027, quando pare certo che l’estrema destra del Rassemblement National di Jordan Bardella vincerà a mani basse, accostandosi alla presidenza, anche se lui, ogni volta che va in tv, mugola che «faranno di tutto per impedirci di arrivare al potere». Quel che è certo è che gli anni Venti francesi sono disseminati di sommosse, gravi ma infruttuose.
Migliaia di persone fermate, arrestate, bastonate. Là Macron è diventato il bersaglio verso cui indirizzare frustrazioni e malumori. Eppure lui ha tenuto botta e ha convocato elezioni a sorpresa, sebbene rivelatesi utili solo ad aumentare la confusione. Nelle piazze deflagra il desiderio di sfogarsi, più che la passione politica: gente di tutte le età, ragazzi, cittadini di seconda generazione.
Il tema della squilibrata distribuzione della ricchezza è all’ordine del giorno, assieme all’ostilità verso istituzioni incapaci di garantire gli indispensabili cuscinetti sociali (sussidi, sanità, istruzione, ecc.). Un paio d’anni fa gli scontenti hanno indossato i gilet gialli, adesso vestono la prima tuta che trovano e sotto il passamontagna urlano lo slogan in voga: «Blocchiamo tutto!».
Ieri la scintilla era la riforma delle pensioni, in questi mesi si è partiti dalla soppressione di un paio di festività: sotto ribolle la rivolta delle periferie e in superficie dilaga la violenza, con sindacati e partiti politici alla finestra e un governo debole, arroccato su arcigne posizioni difensive. Su tutto aleggia l’ansia di perdere ciò che si ha, o il disgusto per non aver avuto mai la possibilità di raggiungere qualcosa di tangibile.
Dentro questa crisi d’autorevolezza della democrazia francese, all’origine di queste violenze, s’intravede un filo rosso: la non-appartenenza. Nel centro di Parigi, in un giorno qualsiasi, in giro si vedono – oltre alle attonite colonne di turisti – quasi solo francesi di pelle bianca, mentre le periferie ospitano per il novanta per cento immigrati di varie generazioni; tra le due nazioni virtuali, la faglia appare sempre più profonda.
La sera che il Paris Saint-German ha vinto la Champions League, la festa a cui pensavamo di partecipare è diventata l’occasione per devastare il centro della capitale, con feriti e negozi saccheggiati. La replica è arrivata lo scorso 21 giugno, in occasione della Festa della Musica tanto amata dai francesi, con violenze per tutta la notte a Parigi e in altre città.
Di fronte a questo senso d’instabilità e di allarme continuo, hanno finito per scivolare nelle retrovie questioni che non ha senso trascurare, integrazione e immigrazione in testa. I francesi raccontano che c’è una data inaugurale di questo purgatorio: il 2016, l’anno in cui le cose sono cambiate con le dimissioni di Macron da ministro dell’Economia e il suo annuncio che si sarebbe candidato alla presidenza, dopo che François Hollande aveva deciso di cancellare la riforma che lui stesso gli aveva sottoposto.
Da quel momento Macron ha smesso di negoziare coi sindacati e gli altri corpi intermedi e ha iniziato a usare l’articolo 49 della Costituzione, quello che consente al governo di approvare leggi senza il voto parlamentare. E oggi è là, nell’angolo, in attesa dell’inevitabile ghigliottina politica.
In questa osservazione dell’apparente dissoluzione del sistema francese, s’incontra un’opportunità affascinante: la contemplazione del disastro vista dal bordo del baratro, sorseggiando un vino bianco profumato o dissetandosi con un Monaco, l’imprevedibile miscela modaiola di birra e cassis. È quanto resta della leggendaria “buona vita”, di cui i migliori angoli di Parigi sono sintesi ed emblema: quel cibo, quei tavoli, quelle librerie, quelle geometrie, quel gusto per le scelte migliori.
Perfino la cervellotica grandeur che ora sospinge i più spericolati ottimisti ad azzardare un bagno nella Senna, la cui frequentabilità è pubblicizzatissima, a dispetto dei ratti che passeggiano sugli argini. Si prova a resistere all’evidenza di quest’emergenza e a godere fin quando è possibile di uno stile che contiene l’abbandono nella sua ricetta, ma che è talmente suggestiva – visitando la casa-museo di Serge Gainsbourg, o allungando a Belleville per i migliori ristoranti cinesi, concedendosi atteggiamenti da flaneur nella sterminata rete delle brasserie, nelle visite alla Cinèmathéque, nelle passeggiate al Bois de Boulogne… dove sembra ancora tutto così perfetto!
Questa sarebbe la vera metropoli del contemporaneo, che coniuga il flusso delle passioni, il circolo delle idee, il ribollire dei desideri, l’appagamento dei sensi. Basterebbe che uno dei suoi tanti momenti magici si cristallizzasse e durasse, se non all’infinito, almeno un bel po’. Siamo arrivati fin qui per questo, fidandoci dell’istinto e dei ricordi. Adesso, Parigi, non ci puoi tradire.
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