Italia nel limbo del suicidio assistito: richieste in aumento e norme ferme

Dicembre 16, 2025 - 14:26
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Italia nel limbo del suicidio assistito: richieste in aumento e norme ferme

Uno studio elaborato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa e della Sapienza di Roma fotografa un Paese incapace di decidere su un tema che gode sempre più di diretti interessati. Il nodo delle aziende sanitarie che non seguono una procedura uniforme

L’Italia continua a oscillare tra aperture giurisprudenziali e immobilismo legislativo sul tema del suicidio medicalmente assistito.

Nel frattempo, le richieste dei pazienti aumentano e il Servizio sanitario nazionale si trova a operare in un quadro incerto, disomogeneo, in alcuni casi persino conflittuale.

È ciò che emerge dallo studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa e della Sapienza di Roma: Emanuela Turillazzi, Naomi Iacoponi, Donato Morena e Vittorio Fineschi.

Un vuoto normativo che amplifica le disuguaglianze

Dal 2019 – anno della sentenza con cui la Corte costituzionale ha stabilito in quali condizioni l’aiuto al suicidio non sia punibile – in Italia sono state presentate 51 richieste formali di suicidio assistito. Ma, spiegano gli autori, quel diritto riconosciuto dalla Consulta “resta spesso solo teorico“.

La frattura principale riguarda l’applicazione pratica: molte aziende sanitarie non seguono una procedura uniforme. Alcune non rispondono, altre accumulano ritardi, altre ancora negano avvio dell’iter, costringendo i pazienti a fare ricorso ai tribunali.

È un contesto in cui chi ha forza economica, supporto legale o “vive nella Regione giusta” ha più probabilità di vedersi riconosciuto un diritto, mentre gli altri vengono lasciati in un limbo. Lo studio parla apertamente di disuguaglianze territoriali e di un vuoto operativo che non tutela né i cittadini né gli operatori sanitari.

Toscana, primo laboratorio normativo. Ma scoppia il conflitto Stato-Regioni

Nel marzo 2025 la Toscana è diventata la prima Regione italiana a dotarsi di una legge organica: tempi certi, responsabilità definite, percorsi trasparenti. Una scelta pionieristica che voleva rendere applicabile la sentenza della Corte costituzionale, ma che ha aperto un fronte politico.

Il Governo ha infatti impugnato la legge, sostenendo che la materia debba essere regolata solo dal Parlamento. Il risultato è un ulteriore rallentamento, in un Paese dove la discussione etica procede più velocemente della capacità istituzionale di legiferare.

Eppure la Corte costituzionale è intervenuta nel 2024 e nel 2025 affermando che qualsiasi intervento la cui omissione porterebbe a una morte rapida deve essere considerato un trattamento vitale, anche se si tratta di pratiche semplici e non tecnologiche. Una precisazione che amplia il perimetro dei pazienti potenzialmente idonei.

Secondo i dati Censis citati nello studio, il 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali ancora più alte tra giovani e laureati.

È un consenso trasversale, stabile negli anni, che mostra una società pronta ad affrontare il tema, e che chiede alla politica una risposta che non arriva. Il Parlamento, tuttavia, non è riuscito a produrre una legge che definisca criteri medici unificati; responsabilità delle strutture sanitarie; tempi e modalità operative; tutela del personale sanitario e dei comitati etici.

Il risultato è un Paese che procede per sentenze e iniziative regionali, senza una cornice nazionale chiara.

Il nodo dei criteri: cosa significa oggi dipendenza da trattamenti vitali?

Uno dei punti più discussi riguarda i criteri fissati dalla Consulta. La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale è considerata condizione necessaria per accedere al suicidio assistito. Ma per gli autori dello studio questo parametro è troppo restrittivo.

Serve un cambio di prospettiva: ciò che conta è la presenza di una patologia irreversibile, una sofferenza ritenuta intollerabile dal paziente e una volontà piena, libera e consapevole” afferma Emanuela Turillazzi.

Il resto – verifiche, procedure, tutele – dovrebbe essere responsabilità del Servizio sanitario nazionale e dei comitati etici territoriali. Solo così, secondo i ricercatori, è possibile garantire equità e ridurre le disparità oggi esistenti.

Lo studio dell’Università di Pisa non si limita a denunciare le mancanze del sistema, ma propone una direzione chiara: rimettere al centro la persona, la sua dignità e la sua autodeterminazione.

In assenza di una legge nazionale, il rischio è quello di proseguire in un sistema a macchia di leopardo, in cui i diritti diventano variabili geografiche.

L’Italia si trova oggi in un limbo che pesa sui pazienti, sulle famiglie, sui medici e sulle istituzioni. Un limbo che richiede una scelta politica consapevole e non più rinviabile.

Crediti immagine: Depositphotos

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