Ucraina. Crimea, ponte e propaganda: la guerra sottomarina di Kiev
di Giuseppe Gagliano –
In guerra, come nella diplomazia, il simbolismo è spesso più pesante del piombo. È con questa consapevolezza che l’Ucraina ha colpito di nuovo il ponte di Kerch, la lingua artificiale di cemento e acciaio che collega la penisola di Crimea alla Russia continentale. Alle 4:44 del mattino del 3 giugno, un’esplosione sottomarina ha danneggiato i supporti sommersi della struttura. A rivendicare l’attacco è stato il Servizio di Sicurezza ucraino (SBU), che con fierezza ha dichiarato di aver impiegato l’equivalente di oltre 1100 kg di tritolo in un’operazione “personally overseen” dal generale Vasyl Maliuk.
Non è la prima volta che Kiev prende di mira questa infrastruttura. Anzi, è la terza. Dopo l’esplosione di un camion il 8 ottobre 2022 e l’attacco con drone navale del 17 luglio 2023, entrambi già attribuiti all’SBU, l’azione del 3 giugno conferma che il ponte di Kerch è più di un obiettivo logistico: è un bersaglio politico e psicologico. Costruito a partire dal 2015 e inaugurato da Putin in pompa magna nel 2018, il ponte incarna la pretesa sovranità russa sulla Crimea, ma anche la sua vulnerabilità. E ogni colpo assestato alla struttura diventa un affronto personale al presidente russo.
Il tempismo non è casuale. L’attacco è avvenuto poche ore prima dell’inizio dei negoziati di pace a Istanbul, il terzo round dall’inizio di giugno. Un messaggio diretto a Mosca: non c’è tregua possibile senza ritiro. Ma anche un messaggio all’Occidente: l’Ucraina non intende cedere nulla, nemmeno simbolicamente.
Sul fronte russo la reazione è stata immediata. Il traffico sul ponte è stato bloccato per quattro ore, mentre l’FSB ha annunciato l’arresto in Crimea di un presunto agente ucraino accusato di aver prodotto esplosivi su istruzioni del SBU. Nella stessa notte, tre droni sono stati abbattuti sopra la penisola, a conferma che il conflitto non conosce più confini tra guerra convenzionale e operazioni ibride.
Ma la vicenda non si esaurisce nella Crimea. Il Comitato investigativo russo ha accusato Kiev anche di aver fatto esplodere due altri ponti, a Bryansk e Kursk, nelle regioni di confine russe. Gli episodi, inizialmente descritti come “crolli”, sono stati riformulati come atti terroristici: sette morti e oltre cento feriti, secondo i dati ufficiali. Le accuse sono pesanti: Kiev avrebbe deliberatamente scelto il momento di massimo affollamento per causare il maggior numero possibile di vittime civili. Nessun gruppo ha rivendicato gli attacchi, e il silenzio assordante degli alleati occidentali suggerisce almeno un tacito assenso.
Intanto, sul piano diplomatico, l’Ucraina segna un punto. Dopo settimane di voci contrastanti, è arrivato l’invito ufficiale al vertice NATO dell’Aia (24-25 giugno). Zelensky lo ha definito “una vittoria”, e non a torto. Secondo alcune indiscrezioni, l’amministrazione Trump si era opposta all’invito, per evitare nuove tensioni con Mosca. Ma i Paesi Bassi hanno confermato la loro disponibilità ad accogliere la delegazione ucraina. Sullo sfondo, il rischio concreto di uno stallo diplomatico: il Cremlino ha già respinto la proposta di un cessate il fuoco immediato, avanzando invece un’offerta limitata a 2-3 giorni in alcune aree del fronte.
Ma la vera posta in gioco è contenuta in un documento reso pubblico dai media russi: Mosca chiede a Kiev di ritirarsi dalle regioni di Doneck, Lugansk, Cherson e Zaporizzja. Solo così, affermano, potrà iniziare un negoziato serio. Un ultimatum mascherato da proposta. E che svela la strategia del Cremlino: congelare il conflitto su linee favorevoli, legittimare le conquiste territoriali e presentarsi al tavolo come forza razionale e pronta al compromesso.
Per ora però nessun vertice tra i leader è in vista. “Improbabile”, ha dichiarato Peskov. Anche perché, come ha precisato lui stesso, prima serve che le delegazioni raggiungano un’intesa. E questa, oggi, sembra ancora un miraggio tra i detriti fumanti del ponte di Kerch.
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