Veltroni, e la lezione cilena per il Pd, per la democrazia e per l’Italia

Dicembre 19, 2025 - 15:00
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Veltroni, e la lezione cilena per il Pd, per la democrazia e per l’Italia

Le riflessioni di Walter Veltroni sui fatti del Cile – era il titolo dei famosi articoli di Enrico Berlinguer dopo il golpe del 1973 – parlano solo in apparenza di un altro Paese. In realtà parlano dell’Italia. Della sinistra italiana. È un atto d’accusa non polemico, quasi sommesso, ma non per questo meno severo. La sinistra riformista, scrive Veltroni, non ha fatto i conti con il nuovo tempo della storia: «Non lo conosce, non lo comprende». La frammentazione sociale e comunicativa, per una cultura politica cresciuta all’ombra delle grandi fabbriche e dei media tradizionali, resta una lingua sconosciuta: «È aramaico».

Così ci si rifugia in formule astratte, in parole che non mordono la realtà, che sono solo parole. Sicurezza, lavoro, immigrazione, demografia, sanità, pensioni: problemi evocati più che affrontati, indice obbligato di un discorso che non diventa mai progetto concreto.

Non basta più dirsi dalla parte giusta, né esibire posture radicali per supplire all’assenza di una proposta. La sinistra cilena, osserva Veltroni, ha seguito questa strada ed è stata sconfitta. Ma non vanno meglio – aggiungiamo – neppure le esperienze riformiste pallide e prive di coraggio.

Il punto non è scegliere tra radicalità e moderazione: il punto è dimostrare che «il riformismo democratico può essere radicale nel cambiamento» non limitandosi «a lagnarsi ogni giorno in tv nei palinsesti omologanti»: e non è azzardato sentire qui le voci dei dirigenti della sinistra italiana, bravi a dire dei no, scarsi a dire dei sì.

Si ripropone qui, con rinnovata urgenza, la questione dell’ambizione del Partito democratico, perché da un dato politico e elettorale di fondo non si scappa: con il venti, ventidue, anche venticinque per cento, non sei all’altezza di una grande ambizione. Che non dovrebbe ridursi alla escogitazione della tecnica migliore per vincere le elezioni – la storica e esagerata centralità assegnata alle leggi elettorali va in questo senso e neppure la testardaggine unitaria purchessia – ma quella di incarnare un insieme di progetti per far star meglio gli italiani: non i tuoi, ma il Paese tutto intero.

Veltroni lo aveva chiaro quando fondò il Partito democratico nel tentativo, appunto, di farne una forza che superasse il più possibile il trenta per cento, base necessaria anche se non sufficiente per puntare a vincere. Ed era questo l’assillo di Alfredo Reichlin espresso con la formula, tanto fraintesa, del partito della nazione: un partito capace di farsi carico dell’interesse generale, andando oltre la somma degli interessi particolari. Reichlin stesso, con lucidità autocritica, denunciò poi lo slittamento di quella formula nel suo opposto: da progetto nazionale a strumento di occupazione del potere, da visione a ombrello del trasformismo. Il confine, va detto, è sempre stato sottile.

La Democrazia cristiana fu eccome un partito della nazione, ma finì per confondere l’interesse del Paese con il proprio, e la storia ci ha mostrato il prezzo di quella confusione. Con l’Ulivo e poi con Matteo Renzi – al netto dei giudizi su entrambe le esperienze – l’aspirazione a una rappresentanza nazionale, popolare, tornò a farsi sentire, seppure per fasi non lunghe. Poi la sinistra italiana ha rimboccato le coperte della demagogia e persino del populismo fino alla scoperta di una confusa identità, mix di passato e presente, nella quale non c’è spazio per ricette nuove di rottura con la sua storia: sulla sicurezza, per esempio, non si tollerano più sociologismi giustificatori.

Il paradosso è che oggi è questa destra povera di valori e di cultura politica a rivendicare – per bocca di Arianna Meloni – l’ambizione di diventare il partito della nazione ovviamente senza aspirazioni riformatrici e modernizzanti, più con l’occhio ai tinelli di casa, avrebbe detto Alberto Arbasino, che alle grandi trasformazioni del Paese. Non ha, questa destra, la capacità di allargare lo sguardo al domani e neppure di parlare a quella parte di società che non sente, e non è, sua. In teoria è una destra che non dovrebbe avere un gran futuro. Il problema è che dall’altra parte non si vede nemmeno un gran presente.

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