Viaggio nella terra dei vini onesti

Palermo, Punta Raisi, metà novembre: dall’aereo si vede qualche nuvola, il cielo è coperto e qualche sprazzo di sole arriva, c’è un bel vento, così il mare s’increspa e le onde fanno un po’ di schiuma. La Sicilia d’autunno, d’inverno, che cos’è? È una Palermo sempre splendida, sempre un po’ sporca, eternamente incasinata, dove trentacinque anni dopo Johnny Stecchino il problema principale è ancora lì: il traffico.
È una Sicilia poi con un entroterra dimenticato, meraviglioso, selvaggio e ordinatissimo allo stesso tempo. Selvaggio perché la natura se non c’è l’uomo di mezzo non sbaglia, ma anche ordinatissimo sulle colline in quanto modellato dall’uomo, che lo ha fatto da tempo in uno dei modi con cui esercita il proprio dominio estetico sulla natura: piantandoci delle vigne. Nessun luogo è perfetto, certo, ma alla Sicilia si perdona tutto o quasi; si lascia perdere e ci si concentra su quel che c’è di buono, da mangiare per esempio, passando dai classici come l’Osteria Nonna Dora a Palermo o una pizzeria gourmet che potrebbe tranquillamente stare in un quartiere gentrificato e invece è a San Cipirello, si chiama Apud Jatum.
Forse meglio stare a San Cipirello, vicino San Giuseppe Jato, che a NoLo, anzi, senza forse. Ci si concentra sul bere – e lo vedremo nel dettaglio tra poco – e si fa amicizia presto con un luogo dove il vino non è solo vino: è un mosaico di terroir che spazia dalle coste assolate alle colline dell’entroterra, dove la viticoltura racconta identità diverse e complementari. Il Sicilia Doc Collection ci ha portato attraverso alcuni luoghi rappresentativi del vino siciliano, per vedere da vicino la ricchezza dei territori, la diversità dei vitigni autoctoni e la vitalità di alcune cantine locali. La Sicilia è un immenso continente enologico nel cuore del Mediterraneo, e il filo rosso di questo viaggio a nostro giudizio è stato uno: l’onestà del vino siciliano.

Ma cosa significa onestà in questo contesto? È un concetto che esprime schiettezza espressiva, affidabilità e per il consumatore finale un rapporto qualità-prezzo adeguato. La qualità media, pur con qualche discontinuità, è generalmente buona, ma questo non vuol dire che manchino le eccellenze, anzi, ma anche le etichette più semplici mantengono quel che promettono e non danno delusioni.
Questione di palato, certo, ma la Sicilia oggi eccelle nei vini bianchi: da uve come Grillo e Catarratto nascono vini freschi, sapidi e dall’aromaticità interessante, bianchi capaci di coniugare struttura mediterranea e bevibilità. Non a caso, i bianchi di Sicilia stanno vivendo un buon momento dal punto di vista commerciale: negli ultimi anni l’export dei bianchi a Denominazione di Origine è cresciuto costantemente (+8,9 per cento nel 2024 rispetto al 2023, proseguendo un trend positivo). Di contro, i rossi siciliani, soprattutto quelli più strutturati, possono a volte risultare un po’ invasivi, opulenti. È il rovescio della medaglia del sole siciliano: le stesse condizioni che donano un corpo generoso alle uve rosse rischiano a volte di produrre vini muscolosi, dai tannini possenti. Se in passato molti rossi isolani puntavano tutto su potenza e concentrazione oggi diversi produttori stanno cercando maggiore finezza, ma resta il fatto che un Nero d’Avola classico difficilmente non sarà un vino intenso. Non sorprende così che sul mercato i rossi siciliani Dop abbiano rallentato: negli ultimi due anni l’export è calato (-4,5 per cento nel 2023, -2,9 per cento nel 2024), segno forse di un gusto internazionale che oggi premia vini più freschi e meno alcolici.
Ma non di soli numeri di export vive l’uomo, quindi: la prima tappa. Prima tappa che ci porta a Camporeale, sulle colline dell’Alto Belìce, dove si estendono i vigneti di Tenuta Rapitalà. Oggi la tenuta conta circa 175 ettari vitati (su 225 di proprietà complessivi) che digradano dolcemente da Camporeale verso Alcamo, a un’altitudine compresa tra i 300 e i 600 metri. I suoli alternano argille e sabbie, combinazione che unita all’eccellente esposizione delle colline si è rivelata ideale per allevare le varietà più pregiate: dagli autoctoni Nero d’Avola e Grillo fino agli internazionali Syrah e Chardonnay.
Il paesaggio è da cartolina, la storia, romanzesca. Comincia nel 1968 dall’unione tra un conte francese, Hugues Bernard de la Gatinais, e la nobildonna siciliana Gigi Guarrasi, proprietaria di queste terre. I due avviano un’opera pionieristica: affiancare alle uve tradizionali siciliane alcune varietà francesi, convinti che il terroir locale potesse gradire un tocco d’Oltralpe. Fu così che in vigna comparvero Chardonnay e Syrah accanto a Catarratto, Grillo e Nero d’Avola, un mix allora insolito, che è diventato col tempo l’anima produttiva dell’azienda, dove a fare i vini c’è dal 1999 un enologo di livello come Silvio Centonze.
Seconda tappa – restando nell’areale di Camporeale, in Contrada Mandranova – la cantina Alessandro di Camporeale, una realtà a conduzione familiare, di dimensioni più contenute rispetto alla Tenuta Rapitalà. Se Rapitalà ha un’origine “nobile”, Alessandro di Camporeale incarna piuttosto il modello della solida famiglia contadina-imprenditoriale siciliana: quattro generazioni di viticoltori, dai bisnonni agli attuali cugini Alessandro che guidano l’azienda. Le radici risalgono ai primi del Novecento, la svolta moderna arriva negli anni Novanta con la nuova generazione, decisa a puntare sulla qualità e sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni in chiave contemporanea.
Oggi i tre cugini – Anna, Benedetto “il nero” e Benedetto “il rosso”, come si definiscono richiamando il melting pot siciliano di Greci, Arabi e Normanni – portano avanti un progetto basato sui principi dell’agricoltura biologica, della ricerca in vigna e con uno stile enologico preciso e rispettoso. Il territorio della cantina rientra nella Doc Monreale, un’area collinare a circa 350-450 metri sul livello del mare, a cavallo tra le province di Palermo e Trapani, tradizionalmente vocata a uve bianche come Catarratto e Grecanico ma anche a rossi robusti come Perricone e Syrah.
Durante la degustazione in cantina resta in mente la coerenza stilistica: tutti i vini condividono una nitidezza di profumi e una limpidezza al palato e anche i rossi più strutturati mostrano un certo equilibrio. E qui ritorna l’onestà: Alessandro di Camporeale riesce a valorizzare ciò che ha in casa senza rincorrere le mode, per loro natura effimere.

Terza visita: Baglio di Pianetto, e stavolta lasciamo Camporeale per spostarci verso est, addentrandoci nelle campagne a sud di Palermo, verso Piana degli Albanesi. Qui in una valle pressoché incontaminata a circa 650 metri di altitudine c’è la tenuta di Baglio di Pianetto. E il panorama cambia: dai dolci colli del Belice alle montagne rocciose attorno a Piana, con boschi, uliveti e laghetti artificiali. L’aria è più frizzante, non per niente qui si parla di “vini siciliani d’altura”, con escursioni termiche marcate, forti venti, estati meno roventi. Tutti ingredienti che donano ai vini freschezza, eleganza e longevità fuori dal comune per la Sicilia.
La storia di Baglio di Pianetto è relativamente recente ma significativa. Negli anni Novanta il conte Paolo Marzotto, innamoratosi di queste colline verdi, decide di fondare qui la propria azienda vinicola con un sogno ambizioso: «produrre vini che esaltino l’unicità di questo territorio attraverso il savoir-faire dei grandi châteaux francesi». Un manifesto che rivela la doppia anima di Pianetto: da un lato rispetto per la cultura del territorio siciliano, dall’altro sguardo internazionale e innovazione e in poco più di vent’anni Baglio di Pianetto si è ritagliata un posto di primo piano nell’enologia isolana.
La Sicilia è non da oggi in termini di numeri una delle colonne portanti del vino italiano: nel solo 2024 ha prodotto 81.976.712 bottiglie, in termini di vigneti biologici ha 32.000 ettari, più di quattro volte il biologico del Veneto e quasi il doppio della Toscana, ed è capace di esprimere una diversità unica grazie a tanti microcosmi enologici. In Sicilia non mancano i grandi vini – anzi – ma la cifra comune è quella di un prodotto genuino e schietto nel rapporto con chi alla fine fa l’unica cosa che si deve fare col vino: berlo.

Tutte le foto sono di Gabriele Ferraresi
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