La diplomazia lenta di Giorgia Meloni

Questo è un articolo de Linkiesta Magazine 03/25 – Senza alternativa. Si può acquistare qui.
Il conservatorismo di Giorgia Meloni, lungi dal ridursi a una pura restaurazione identitaria, prende forma soprattutto in politica estera, dove si fa programma realista fondato su pragmatismo e consapevolezza dei limiti sistemici. Il realismo, la scuola dominante nella tradizione delle relazioni internazionali, invita a diffidare delle grandi utopie e degli automatismi ideologici: la politica mondiale è un sistema anarchico, popolato da attori che perseguono la sicurezza, la stabilità e la difesa del proprio spazio di manovra. È qui che la sensibilità conservatrice s’innesta, intuendo che l’arte di governo è spesso una gestione accorta delle costrizioni e dei vincoli, che la cautela vale più dell’audacia e che il compito primario dello Stato non è cambiare il mondo, ma impedire che i cambiamenti del mondo cambino in peggio le condizioni della nazione.
Meloni ha portato questa grammatica tradizionale sul tavolo delle crisi, preferendo soluzioni mediane e attente agli equilibri contestuali, sempre legate sia alla stabilità interna sia alla proiezione esterna. Nessuna fuga in avanti e nessun ritiro autarchico, ma un’immersione nei meandri di un sistema internazionale fragile e pieno di insidie.
La sfida più immediata per Meloni si è giocata sull’asse europeo. Giunta a Palazzo Chigi in un clima di diffidenza tra i partner continentali, la presidente del Consiglio ha superato l’ostilità iniziale con gesti concreti di lealtà all’architettura comunitaria.
In questo processo, è stato decisivo il rapporto con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Tale relazione si è ulteriormente consolidata dopo le elezioni europee del duemilaventiquattro, che hanno registrato uno spostamento a destra dell’opinione pubblica europea e messo il Partito Popolare Europeo nella condizione di dover trovare interlocutori tra i conservatori europei.
L’intesa personale tra Meloni e von der Leyen ha contribuito a sdrammatizzare i timori sulle derive «sovraniste» dell’Italia, consentendo a Roma di tornare a dialogare su diversi tavoli: energia, competitività industriale, sicurezza. Il rapporto si è rafforzato attorno a una visione comune delle priorità, con Meloni pronta a sostenere la Commissione sulle politiche migratorie, di bilancio e di difesa, ma senza rinunciare a contrastare l’eredità del passato, soprattutto in materia di transizione ecologica.
La presenza di Raffaele Fitto, unico rappresentante del gruppo dei Conservatori e Riformisti tra i membri di vertice della Commissione, è stato uno degli snodi simbolici di questa nuova stagione. Fitto non è soltanto la sponda italiana nei processi di decisione europea, ma il segnale tangibile che la destra conservatrice, da corpo estraneo, è diventata soggetto integrato e capace di incidere sull’agenda comunitaria. Attraverso Fitto, Meloni ha potuto orientare e monitorare i dossier strategici, collegando l’ordinaria gestione del potere istituzionale al rilancio di una nuova visione conservatrice europea, più moderata e lontana dagli eccessi di Viktor Orbán e Marine Le Pen.
Uno degli strumenti privilegiati della nuova proiezione esterna italiana è stato il «Piano Mattei» per l’Africa. Nato come risposta strutturale alla questione migratoria e all’instabilità mediterranea, questo piano, pur rimasto sotto traccia nel dibattito pubblico, rappresenta una delle principali innovazioni introdotte dal realismo meloniano. Attraverso la creazione di partnership energetiche, programmi di investimento in infrastrutture, accordi di formazione e sviluppo, il governo Meloni ha cercato di rafforzare l’influenza italiana in Africa e, al tempo stesso, porre un freno ai flussi migratori irregolari attraverso la cooperazione con i Paesi di origine e di transito.
Il Piano Mattei dovrebbe essere architrave di una politica mediterranea rinnovata: Roma ambisce a essere il ponte tra Europa e Sud globale, promuovendo la crescita nei Paesi africani su basi di reciprocità e responsabilità condivisa. La posta in palio è duplice. Da un lato, arginare l’instabilità che alimenta i traffici illeciti e l’emergenza migratoria; dall’altro, consolidare il ruolo dell’Italia e dell’Europa come attori di sviluppo autentico, in grado di competere con nuove potenze emergenti come Cina o Russia.
Determinare il successo del Piano Mattei non è semplice oggi, ma appare come un passo strategico incoraggiante che resta appeso a un interrogativo: quante risorse serviranno e quante il governo saprà ricavarne per raggiungere risultati solidi e duraturi? Tra gli elementi più difficili da decodificare, quando si guarda alla politica estera italiana, c’è il rapporto con la Casa Bianca. Meloni deve molta della sua credibilità internazionale all’aver costruito un buon rapporto con Joe Biden tra il duemilaventidue e il duemilaventiquattro. In quegli anni, la presidente del Consiglio e la sua coalizione hanno dimostrato di saper tenere la posizione di sostegno all’Ucraina e di ridurre la partnership strategica dell’Italia con la Cina, molto accentuata nei governi guidati da Giuseppe Conte.
Sono queste le due linee rosse tracciate dal potere americano, su cui si discrimina tra alleati e non. Posizione che Meloni ha provato a coltivare con il ritorno di Donald Trump: con i Repubblicani, il partito di Meloni ha rapporti consolidati e di lungo periodo.
Meloni non si è mai divincolata dall’alleanza politica con Trump e ha cercato di posizionarsi nel mezzo, tra i capi di governo europei più critici verso l’ex presidente, come Emmanuel Macron e Pedro Sánchez, e lo stesso leader populista. Tale posizione le è valsa, almeno a parole, la benevolenza di Trump, che però non ha risparmiato l’Italia dai dazi.
Proprio sul protezionismo, forse, il governo italiano riteneva di poter ottenere di più, sia in termini di sconti da parte dell’amministrazione americana sui propri prodotti, sia sulle condizioni generali imposte all’Unione Europea. Da questo punto di vista, il ruolo di ponte che Meloni avrebbe potuto giocare è fallito. Meloni ha seguito la linea di Trump in altri campi. Lo ha fatto rispetto al Medio Oriente, dove la posizione del governo italiano è andata di pari passo con la Casa Bianca, soprattutto nel calibrare la relazione con Israele, senza accelerazioni nella condanna di Benjamin Netanyahu e senza riconoscere la Palestina, al contrario di altri Paesi europei. Lo ha fatto rispetto alla coalizione dei volenterosi in Ucraina, agevolando, con il suo rifiuto rispetto a un eventuale invio di truppe, la volontà di Trump di tenere gli europei ai margini delle trattative.
Meloni ha poi assecondato la richiesta di Trump di spendere maggiormente sul piano militare, con l’Italia che nel duemilaventicinque raggiungerà per la prima volta dopo decenni il due per cento di spesa sul Pil in questo settore, dichiarandosi favorevole alla ricerca di nuove soluzioni europee per investire in difesa. In termini generali, Meloni continua a riconoscersi nell’idea di Occidente, resta molto legata sul piano politico e diplomatico alla Casa Bianca e non sembra voler riconoscere, in termini realistici, grandi spazi di autonomia a un’Europa senza il sostegno americano.
La guerra in Ucraina rappresenta la prova più esplicita del realismo meloniano: l’Italia ha sostenuto convintamente Kyjiv sia in ambito europeo sia nella cornice Nato, assicurando aiuti politici, logistici e finanziari, senza mai oltrepassare la linea rossa dell’invio di truppe sul terreno – di qui la presa di distanza di Meloni dall’avanguardia della coalizione dei volenterosi costituita da Francia e Regno Unito.
Nel Medio Oriente attraversato dalla nuova guerra a Gaza, il realismo conservatore del governo Meloni si è espresso ancora una volta in una politica senza strappi netti. Dopo la condanna netta delle azioni di Hamas, il governo italiano ha invitato Israele al rispetto della proporzionalità e del diritto internazionale, assumendo una posizione di sostegno costruttivo e non ideologico.
Roma si è impegnata al tavolo europeo per promuovere una soluzione a due Stati, subordinata alla liberazione degli ostaggi e all’esclusione delle fazioni estremiste dal futuro assetto palestinese. Oggi, dopo l’invasione di Gaza da parte degli israeliani e tramontata l’ipotesi dei due Stati, il governo italiano resta a supporto della soluzione tracciata da Trump per il governo della Striscia, con la creazione di un comitato internazionale per stabilizzare il cessate il fuoco e dare avvio alla ricostruzione.
L’esplosione della questione umanitaria dei palestinesi nell’opinione pubblica ha costretto Meloni, che fino all’estate del duemilaventicinque aveva mantenuto una posizione defilata, ma di fatto di moderato sostegno al governo israeliano, a condannare più nettamente il comportamento di Israele pur senza sposare le posizioni di altri Paesi europei e delle opposizioni, favorevoli al riconoscimento della Palestina.
La politica estera di Giorgia Meloni, figlia di un conservatorismo pragmatico e di un realismo maturato nel confronto con una realtà internazionale complessa e instabile, si muove all’interno della tradizione euroatlantica italiana. Torsioni sovraniste, euroscettiche o strappi interventisti sono stati evitati. Al tempo stesso, la crescita della destra sovranista in tutta Europa, con partiti oggi al governo o prossimi a entrarci in vari Stati europei, permette a Meloni di evitare l’isolamento diplomatico che tocca ai leader di centrosinistra.
L’Italia si propone come attore capace di dialogare tanto a Bruxelles quanto a Washington, di proporre soluzioni originali nello spazio mediterraneo come su quello globale, pronta a tradurre il capitale politico accumulato in un ruolo sistemico che, nei prossimi anni, se Meloni resterà alla guida del Paese, cercherà di trascendere il suo mero peso economico.
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