Il maxi schermo dei Coldplay, i giustizieri della rete, e la nostalgia del linciaggio

Dicembre 19, 2025 - 15:00
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Il maxi schermo dei Coldplay, i giustizieri della rete, e la nostalgia del linciaggio

La cosa più straziante che abbia letto questa settimana è l’intervista che il Times ha fatto a Kristin Cabot, il cui nome non vi dirà probabilmente niente neanche se quest’estate avete passato diversi giorni a parlarne. È quella che era al concerto dei Coldplay con uno che non era il marito, e la telecamera li ha mandati abbracciati nel maxischermo, e per qualche giorno è sembrato fosse il primo e l’ultimo adulterio della storia del mondo. Ciononostante, io non credo di averne memorizzato neanche per cinque secondi il nome.

Il che già è parte d’un’analisi non ottusa della dinamica: quando parliamo di quel che gli analfabeti chiamano shitstorm e gli un po’ meno analfabeti public shaming, quando parliamo di gente che per qualche giorno è il bersaglio dell’internet e poi si passa all’indignazione successiva, non stiamo parlando di persone. Lo so perché ci sono finita in mezzo molte volte e vi assicuro che nessuna persona normale se m’incontra mi dice «ah, tu sei quella che rispose a un tweet dicendo che Pasolini si sarebbe ingroppato il ragazzino che ce l’aveva con Casa Pound?».

(Se non sapete a che episodio mi riferisca, significa che siete persone normali, non gente che ricorda un tweet di dieci anni prima, non gente chronically on line, quelli che sanno tutti i meme e tutte le gif e tutti i tormentoni, quelli il cui analfabetismo ha una tenacia che noi possiamo solo invidiare).

Poi certo, chi non ha abbastanza consuetudine con l’internet da essere finito in mezzo a questi lanci di uova marce decine di volte pensa che quella volta che è capitato a lui sia gravissima, sia irripetibile, sia una cosa mai vista prima. Ma no: sono tutte uguali, e tutte passeggere.

L’altro giorno ho letto i penzierini di una signora secondo la quale chi sostiene che le shitstorm (che il dio delle parole mi perdoni) sono robetta non ne ha mai vissuta una, perché a lei Mondadori ha mandato al macero due libri per un incidente analogo.

Ma l’incidente della signora consisteva nell’aver scritto su un social che sperava Berlusconi morisse: quando parliamo di lanci di uova in genere parliamo di cose che sono diventate pubbliche non per volontà dei protagonisti (la coppia al concerto dei Coldplay) o di reazioni spropositate a questioni minori (io mi sono appena presa tre giorni di insulti per aver detto che gli adulti produttivi non hanno tempo di dormire otto ore, perché la gente è così priva di problemi veri da aver bisogno di difendere la propria reputazione dalle opinioni delle sconosciute su questioni generiche – ma questa è una storia troppo bella per liquidarla in una parentesi, un altro giorno ne parliamo più in dettaglio).

Se scrivi che speri nella morte del tuo editore, il fatto che il tuo editore reagisca dicendo che i tuoi libri non gli interessano più mi sembra anche un po’ il minimo, anche un po’ ovvio, anche un po’ proporzionato – no?

Se invece vai a un concerto con uno con cui lavori, a quel concerto sai che c’è – con una – anche il marito da cui ti stai separando, e quindi quando t’inquadrano t’imbarazzi, e da lì il delirio, la questione è effettivamente spropositata (di nuovo: la gente è così priva di problemi, e ha così non un cazzo da fare tutto il giorno, che qualcuno si è messo a cercare – e trovare – i nomi di due sconosciuti inquadrati a un concerto; mi pare sia quello, non approfondito dal Times né da altri, il particolare davvero spaventoso).

Il dettaglio più straziante dell’intervista a Kristin Cabot, più del fatto che col tizio (Andy Byron, se avete spazio mentale per memorizzare nomi di gente che non avete neanche ben capito che lavoro faccia) dice che neppure aveva una relazione, più del fatto che poi non l’ha più sentito, più del fatto che «i miei figli potrebbero avercela con me tutta la vita, e lo capirei» (ellamadonna), più di tutto, il dettaglio straziante è che lei, tra tutti quelli con cui potrebbe scegliere di prendersela, ce l’ha con Gwyneth Paltrow.

«Ero tanto fan della sua azienda, faceva quella dalla parte delle donne. Come ha potuto farmi questo, come ha osato, dopo quel che ha passato per la cosa del conscious uncoupling. Che ipocrita». È vero che Gwyneth Paltrow ha trent’anni d’allenamento all’esposizione al pubblico e Kristin Cabot a malapena trenta secondi, ma «quel che ha passato» è semplicemente che il pubblico ha riso d’una cosa che faceva ridere.

Il «questo» che le ha fatto è che, con notevole prontezza di riflessi, l’azienda per cui sia Cabot sia il tizio lavoravano ha fatto uno spot in cui Gwyneth Paltrow spiegava che servizi fornisse l’azienda a un pubblico interessato solo ai pettegolezzi. Era una presa in giro davvero blandissima, senza neppure citazioni esplicite dei due presunti adulteri. «Come ha osato».

Paltrow avrà pure avuto più anni per abituarsi all’idea che il fatto che ridano di te non è una cosa gravissima da scongiurare e per la quale disperarsi, ma anche Cabot ha l’età per fare un piccolo sforzo ed emanciparsi dalla sé stessa dodicenne che dice alla sua intervistatrice che si sono accaniti su di lei perché è una donna e scandisce «sono diventata un meme» come dicesse «mi hanno dato il 41 bis».

Spero che Cabot stia mettendo su una pièce murgiana, abbia capito che far la vittima paga, perché è grave se invece crede davvero a quel che dice quando elenca i sacrifici fatti, le mani sul culo in ufficio ma lei che resiste donna ma anche forte ma anche integra ma anche competente, e il buio nella mente quando in seguito allo scandalo non riusciva neanche più a fare da madre ai suoi figli: per dei meme?!

Come non bastasse l’avercela con Gwyneth Paltrow, dice anche che la rattrista che lo staff dei Coldplay non l’abbia mai contattata, o abbia mai fatto un comunicato stampa per smorzare i toni. Ma in che senso? Cosa dovevano dire? «Ai nostri concerti tutti possono limonare con tutti»? Cosa voleva? Che le dessero dei pass per il backstage? Che Chris Martin le desse modo di far ingelosire Gwyneth?

Qual è lo scopo di quest’intervista? Dice Cabot che sembrerà che riesumi una storia ormai sepolta, ma «non è finita per me, e non è finita per i miei figli». Io glielo giuro, signora Cabot: nessuno si ricorda di lei. È stata per qualche giorno la fissazione dell’internet, ma era luglio: nel frattempo ci sono stati almeno altri cento scandale du jour, e lo so che il Times s’impegna a fare di lei un caso significativo perché il turno da capro espiatorio nel mondo dei cellulari e dei social prima o poi tocca a tutti e la dinamica è molto immedesimabile e ai lettori di tutto il mondo piace il vittimismo, ma la noiosa verità è che nulla è più dimenticabile d’uno scandalo in questo secolo in cui gli scandali sono in saldo.

Si parla tanto – l’articolo del Times cita immancabilmente il saggio di Ronson, “I giustizieri della rete” – delle dinamiche di questi linciaggi, del moralismo, del fatto che, scusate se faccio la cafonata di citarmi, «anche i migliori di noi, nelle pause tra un salvare il mondo e l’altro, cercano qualcuno da linciare: se quello che l’ha detta sbagliata del giorno è un altro, se trovo uno su cui accanirmi e dirottare l’attenzione, anche per oggi sono salva».

Ma forse dovremmo parlare del compiacimento d’essere sì linciata ma, santo cielo, protagonista. Di come poi quello stare al centro dell’attenzione venga a mancare e ci si riduca così. A dire che se ne sta parlando – cinque mesi dopo! – perché è un caso esemplare, ma se si presta attenzione si sente il sottotesto: di me, di me, vi prego, parliamo di nuovo di me. E se per favore Chris Martin potesse farmi una videochiamata.

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Redazione Redazione Eventi e News