Intervista a me stesso, con il brivido di dire la verità

Ho visto che ultimamente vanno tanto le interviste sui giornali, interviste perlopiù a soggetti fatui (fatti oggetto, mi pare, di pietosa, caritatevole curiosità). Ecco allora in esclusiva un’intervista a me fatta da me senza stare a perdere tempo con le domande. Una parola sola, anzi due: dica, confessi.
A un certo punto non vorremmo che confessare (parlo della prima persona plurale che conosco: io). A un certo punto, sì, mi faccio porre le domande. Che io non risponda è una leggenda (perché dovrebbe essere altro?). Una leggenda sì, perché parlare di sé non può essere che un esaltante atto leggendario: fare di una persona, ovvero di un bruco, una farfalla (con una certa crepitante sofferenza, anche lacerante).
Dire la verità (lasciamo perdere cosa cappero sia la verità: la verità è quel che dici) è cosa sorprendente, ti sorprendi di entrare in territori sconosciuti, i territori nei quali hai le tue tane, i tuoi posti per la notte. In materia di tane, in noi stanno acquattati tutti gli animali, dall’orso al topino. Lo sai sì che nell’intimo siamo ottime, squittenti bestiole? Ma sì che lo sai. Chi è che nell’intimo non conosce rodimenti? Ricordi Totò? «Cos’è? L’intimo non ti rode?».
Capisci? La verità è quella cosa che non sapevi, e sai che non la sapevi nel momento in cui la sai dire, ossia sai che la sai. Dire la verità è rabbrividente, eccitante, stupefacente (è la droga più droga che ci sia). Chi è che la vuole sentire? Chi la dice, è ovvio, chi la dice vuole sentirsi dirla, qualsiasi cosa essa sia, qualsiasi senso suono significato produca, queste parole con la esse, parole sibilanti, praticamente fischi al nostro cane che siamo, da riporto ossia che alza in volo la nostra verità, la nostra sparata e poi ce la riporta per compiacimento, nostro e suo del cane che siamo.
Ne sei avido non appena la senti uscire dalla tua bocca, fai a brandelli il mondo coi tuoi morsi solo perché il mondo è il contorno. La solita insalatina mista è il mondo, o no? Anche cicoria ripassata (anche all’agro, come no, ci mancherebbe, non risparmiamoci l’aspro, il pungente), e cime di rapa affogate, tanto peperoncino, sì. Che altro? (Vuole altro?) L’aglio, l’aglio, il digrignante aglio.
La verità è il tuo sfogo, o no? Se il mondo sapesse. Cosa sa? Il resto di niente. Sapere cosa? Lo spettacolo di dire come stanno le cose. Come stanno? In belle manifestazioni spettacolari di sé. Alle volte il retro è meglio del dritto. Alle volte? Sempre. Facciamo ottime trame, quelle vere, stringenti annodature, altro che storie, qui nel retro (il meglio dello spettacolo è lì che accade, non parliamo poi del camerino, sia prima sia dopo, l’andata in scena è solo un intervallo).
Ti confido una cosa sulle cose, questa: le cose le sappiamo. E tutto è risaputo. (È che vorremmo non saperle, è che vogliamo essere creature commoventi, questa è la verità.)
Tutto è citazione, anche se inventi. («Ma tu non inventi niente, non è vero?», facciamo che tu mi abbia posto questa domanda).
Tutto è citazione di quello che hai conosciuto, di persona e per interposta persona, di faccia, di spalle, al chiaro e al buio, anche per averlo visto e visto scritto o dipinto o in immagine, ferma e mossa, o che l’hai fatto o che te l’anno fatto eccetera. Tutto è citazione di tutto, di tutte, di tutti, di te (di me). E non inventi niente nemmeno quando inventi. («Ma tu, l’abbiamo detto, non inventi, quindi è tutto vero quel che inventi», cos’è una domanda o un’affermazione? Una reiterazione, forse? Roba retorica? Efficace? Non so. Ma chi parla quando parlo?).
E anche le parole sono citazioni di parole, anche i neologismi (anzi, proprio i neologismi te lo dimostrano: sono accolti quando sono riconoscibili gli accoppiamenti, le fantasiose congiunzioni, le bizzarre giustapposizioni, l’ambito funzionale, l’attività generativa che li ha procreati, la palpitante origine, la civettuola comprensibilità, altro che altre storie).
Le parole non le scrivi (sì, certo le scrivi, va bene, sì, ma non le scrivi), le citi. E sai una cosa? Lì sta il bello. Ci mancherebbe che tu inventassi. E chi sei? Che libertà pretendi? Sei nel mondo. Devi uscirtene. Devi, anche con fatica, con un certo sforzo, dolore forse, tirartene fuori, uscirne farfalla: la parolaia. Devi sbattere le ali per qualche giorno sopra i cavoli, devi sbatterle per posarti sulla corolla della verbena, pianta semplice, comune, o della gerbera, fiore allegro, accogliente, fai tu, sono fiori che esistono, citabili. Dico: vorresti forse posarti su fiori che non esistono? Non è possibile. Se fosse possibile, non esisteresti nemmeno tu, farfallina. Sto divagando, sto sfarfallando. (L’intervistato e l’intervistatore fanno un po’ di confusione, nel vero senso della parola, tra l’uno e l’altro. Il “vero senso”, oh, finalmente. Benvenuto, sentivamo la mancanza.)
Vengo a sapere cose di me da me stesso (che pare sia cosa rara). Ecco il punto, la scoperta. Vale per me me, vale per tutti (tutte, soprattutto; sugli uomini non farei tanto affidamento). Questa scoperta: ogni citazione è citazione di te. Sei tu. Io, parlando per me. Poi tu, proprio tu, non lo so, vedi tu, fai tu, anzi lei, dica lei cosa desidera. Alle volte vorrei essere un salumiere, dire «lascio?» se c’è un po’ di sovrappeso al mezz’etto che m’ha chiesto chicchessia, o «vuole altro?». Troppo bella sarebbe la vita, fare l’artista e parlare da salumiere: «La bocca l’ho pittata, le faccio pure gli occhi, il naso? Dica, io sto qua apposta. Un paio d’etti di guance? Sono due e mezzo, lascio?».
«Le frasi correvano veloci, più veloci della comprensione, più veloci dei decifratori, degli interpreti dei cifrari oscuri, dei risolutori di enigmi, tutti che arrancavano arcigni in cerca di indizi casomai me la facessi coi loro fessi amori perché le frasi parevano veramente correre agli amori trascurando ogni altra cosa e persona al mondo. (Davvero, quando ti chiedono che significa, pare ti chiedano di render conto delle tue scappatelle, magari coi loro tesori, temono, o sperano.) Poi, forse, al ritorno, con la calma spossatezza che viene dopo la cosa ben fatta, ti interessi con piacere agli alberi che ti vengono incontro ai bordi della corsa che era stata sfrenata all’andata, e t’erano sfuggiti, gli alberi, e gli oleandri tra le due corsie in certi tratti, rosa, bordò, bianchi». È solo una citazione. Non vuol dire altro (vuole altro?).
Insomma, questo è un raccontino su come ci si sente all’inizio della confessione. Perché sì, siamo solo all’inizio. Vi farò sapere.
Arrotolo questa paginetta strappata e la sistemo tra le orecchie di un leprotto, e la infiocchetto perché non la perda in corsa.
Non la perderà, la porta in testa come una orgogliosa acconciatura. Questa paginetta arrotolata è il suo cocco. Chi ricorda la pettinatura col cocco? (Non il frutto né l’olio, per favore; il cocco, quella arricciatura dei capelli come un cannolo in testa per lungo, da dietro fino alla fronte.)
Questa paginetta non è stata mai ritrovata né questa intervista è stata mai resa. (Sono sempre il solito).
L'articolo Intervista a me stesso, con il brivido di dire la verità proviene da Linkiesta.it.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




