Iran. Le monarchie del Golfo “ammorbidiscono” Trump
di Giuseppe Gagliano –
Nelle segrete stanze della diplomazia mediorientale si assiste oggi a un ribaltamento silenzioso ma strategicamente cruciale. Mentre Donald Trump, ritornato sotto i riflettori internazionali con l’obiettivo di rilanciare una politica estera muscolare, sembrava pronto a sfidare nuovamente Teheran, sono stati paradossalmente proprio i suoi alleati storici nel Golf, ovvero Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, a mettergli un freno.
Secondo quanto rivelato dal portale di informazione statunitense Axios, durante la recente visita di Trump nella regione i leader delle tre monarchie hanno espresso chiaramente la loro opposizione a eventuali raid contro le infrastrutture nucleari iraniane. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar Tamim al-Thani e il presidente emiratino Mohammed bin Zayed, pur ospitando basi militari statunitensi sul proprio territorio, hanno fatto sapere che un attacco preventivo contro l’Iran rischierebbe di trasformare le loro nazioni in bersagli diretti delle inevitabili ritorsioni.
Questa prudenza è sintomo di un radicale mutamento di priorità. Non più la crociata ideologica contro il “nemico sciita” come nel 2015, quando gli stessi Paesi si schierarono contro l’accordo sul nucleare voluto da Obama e sostennero la campagna pubblica del premier israeliano Netanyahu. Oggi prevale la necessità di mantenere stabilità interna e concentrarsi sulla crescita economica, anche a costo di sopportare la presenza ingombrante e ingombrante della Repubblica Islamica nella regione.
Gli Emirati hanno perfino rilanciato relazioni diplomatiche con Teheran, e Riyadh, dopo l’accordo di riavvicinamento mediato dalla Cina nel 2023, ha aperto una linea diretta di comunicazione al punto da inviare il ministro della Difesa, Khalid bin Salman, in visita ufficiale a Teheran per incontrare la Guida suprema, Ali Khamenei. Un segnale tanto eclatante quanto inequivocabile: l’Arabia Saudita non appoggerà nessuna opzione militare contro l’Iran.
Trump da parte sua ha confermato di aver avvertito Benjamin Netanyahu, nel corso di una telefonata resa pubblica, di astenersi da iniziative belliche unilaterali. Il magnate-presidente, alla ricerca di un successo diplomatico a effetto, ha affermato che la crisi può essere risolta “con un documento molto forte”, suggerendo l’ipotesi di un nuovo accordo entro poche settimane. Un trattato che, secondo le indiscrezioni, prevederebbe per la prima volta ispezioni da parte di tecnici statunitensi, oltre che delle Nazioni Unite, nei siti nucleari iraniani. Un passo mai accettato finora da Teheran, che però sembra oggi pronta ad aprire – seppur parzialmente – le porte agli ispettori americani, pur rivendicando il diritto sovrano ad arricchire uranio senza dipendere da forniture estere.
Anche su altri fronti simbolici, come la proposta trumpiana di rinominare il Golfo Persico in “Golfo Arabico”, la posizione dei partner arabi si è rivelata più prudente del previsto. Secondo fonti locali il progetto è stato abbandonato a causa dell’assenza di consenso tra i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, con il timore diffuso di generare tensioni inutili con l’Iran e di destabilizzare ulteriormente l’area.
La linea di fondo è chiara: dopo anni di guerre per procura, tensioni confessionali e alleanze mutevoli, il blocco sunnita del Golfo ha oggi un’agenda profondamente mutata. L’obiettivo non è più il contenimento violento dell’Iran, ma la convivenza armata, regolata, possibilmente funzionale agli interessi economici di lungo periodo. Il timore di perdere investimenti, di vedere minacciati i piani di sviluppo nazionali (Vision 2030 per l’Arabia Saudita, la strategia diplomatica soft degli Emirati, il ruolo di mediatore del Qatar) ha finito per prevalere sulla tentazione dello scontro frontale.
Ed è proprio in questo nuovo contesto che si inserisce la cautela verso Trump. Il Medio Oriente ha compreso che il tempo della contrapposizione ideologica senza ritorno è tramontato. Quel che conta ora è il pragmatismo strategico. E anche la Casa Bianca, che sia occupata da Biden o da Trump, dovrà tenerne conto.
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