Israele. La Knesset vota l’annessione ella Cisgiordania
di Giuseppe Gagliano –
La Knesset ha approvato una mozione simbolica a favore dell’annessione della Cisgiordania. È l’ennesimo tassello di una strategia coerente e di lungo periodo che, ben oltre il linguaggio diplomatico, punta alla modifica irreversibile dello status territoriale dei Territori Palestinesi Occupati. Pur essendo dichiaratamente non vincolante, il testo approvato con un’ampia maggioranza di 71 voti contro 13 ridefinisce i confini del dibattito politico interno israeliano, preparando il terreno per scelte ben più incisive. La terminologia utilizzata – “Giudea, Samaria e Valle del Giordano” – non è casuale: rimanda a una visione storica e identitaria della sovranità ebraica su tutta la Terra d’Israele, rimuovendo qualsiasi spazio di compromesso.
L’iniziativa legislativa non può essere disgiunta dal quadro militare. Mentre il conflitto a Gaza prosegue, con un numero crescente di vittime civili e una pressione costante sulle infrastrutture locali, in Cisgiordania si moltiplicano le incursioni militari israeliane. I villaggi palestinesi subiscono assedi, le strade vengono militarizzate, e i coloni – spesso spalleggiati dalle truppe – aumentano la violenza quotidiana. Questa escalation non è solo tattica: rappresenta una vera e propria strategia di terra bruciata, utile a svuotare gradualmente i territori palestinesi e rendere più “digeribile” l’annessione futura. Dal punto di vista militare, il controllo totale della Cisgiordania offre a Israele un vantaggio strategico enorme: profondità difensiva rispetto alla Giordania, controllo di valichi e colline cruciali e, non da ultimo, una cintura di sicurezza tra i vari insediamenti ebraici.
La mozione si colloca in un clima geopolitico favorevole a Israele. Gli Accordi di Abramo, la debolezza delle leadership palestinesi, l’ambiguità diplomatica europea e l’assoluta protezione diplomatica offerta dagli Stati Uniti hanno disinnescato ogni reale pressione internazionale. Anche i Paesi arabi più sensibili alla causa palestinese sono ormai concentrati su altri dossier: Iran, Yemen, Libano. In questo vuoto, Israele persegue la propria agenda. La recente dichiarazione della Corte Internazionale di Giustizia, che ha ribadito l’illegalità dell’occupazione e degli insediamenti, è stata ignorata. E così il diritto internazionale viene ridotto a una formula retorica priva di applicazione concreta. Sono 750mila i palestinesi che vivono abusivamente nei Territori palestinesi.
Anche dal punto di vista economico, l’annessione produce effetti a catena. La Cisgiordania non è solo un territorio conteso: è una risorsa. Terra coltivabile, sorgenti d’acqua, giacimenti di pietra e risorse naturali costituiscono elementi cruciali per l’economia israeliana, soprattutto nelle aree più desertiche del sud. Il controllo diretto dei territori consente la creazione di nuove zone industriali, l’espansione delle infrastrutture per i coloni e la messa a reddito di aree precedentemente soggette a restrizioni militari. Nel frattempo, l’economia palestinese, già fragile, viene ulteriormente strangolata. Restrizioni alla mobilità, demolizioni mirate e assenza di investimenti alimentano una crisi strutturale che rende ogni ipotesi di autonomia economica palestinese una chimera.
Il vero obiettivo dell’annessione è la dissoluzione silenziosa della prospettiva dei due Stati. Se la Cisgiordania viene integrata in Israele, se Gaza resta isolata e Gerusalemme Est annessa de facto, che spazio rimane per uno Stato palestinese? Nessuno. Non è un caso che mozioni precedenti, sempre simboliche, abbiano dichiarato esplicitamente la contrarietà alla creazione di uno Stato palestinese, definendolo una “minaccia esistenziale”. E il fatto che questi testi siano stati votati anche da membri dell’opposizione testimonia una convergenza nazionale su questo punto: la soluzione a due Stati è stata rimossa dal lessico politico israeliano.
Le dichiarazioni delle autorità palestinesi, così come i rapporti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni per i diritti umani, parlano apertamente di apartheid. L’annessione di territori senza riconoscere pari diritti ai palestinesi che vi risiedono genera un sistema legalmente discriminatorio, consolidando un regime a due livelli. La violenza dei coloni, l’assenza di diritti politici, l’accesso diseguale ai servizi sono sintomi di una realtà che la comunità internazionale continua a non voler nominare per quello che è. Eppure, la logica dell’apartheid non è una deriva accidentale: è un prodotto diretto della colonizzazione territoriale.
Dal punto di vista strategico, l’annessione non è priva di rischi. La radicalizzazione del conflitto israelo-palestinese rischia di riaccendere le piazze arabe, indebolire i governi moderati e offrire pretesti all’Iran e ai suoi alleati per nuove azioni militari. Ma soprattutto, l’isolamento crescente della questione palestinese alimenta una frustrazione collettiva che potrebbe esplodere in forme imprevedibili, anche all’interno di Israele. La pace duratura non può nascere dalla marginalizzazione totale dell’altro: questo è il nodo irrisolto di ogni annessione.
La mozione votata dalla Knesset è solo apparentemente simbolica. In realtà, rappresenta il consolidamento di una dottrina: il controllo totale del territorio, la marginalizzazione del progetto palestinese, la gestione securitaria del conflitto. È una strategia che, nel breve periodo, garantisce vantaggi politici ed economici. Ma nel lungo periodo apre un fronte permanente di instabilità. La questione palestinese non scompare: cambia forma, diventa una lotta per i diritti civili, una battaglia per la memoria e la dignità. E questa lotta, per quanto silenziata, è destinata a tornare al centro della scena.
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