La cucina italiana è patrimonio dell’Unesco per ragioni opposte a quelle che raccontano

Abbiamo letto proclami, visto festeggiamenti, assistito a celebrazioni. Abbiamo distribuito risotti alla milanese, fatto gioire gli chef, scomodato tutte le nonne dello stivale. Ma cos’abbiamo davvero capito di quello che è successo a New Delhi il 10 dicembre? Proviamo a spiegare per punti, mettendo insieme informazioni e commenti, idee e previsioni. Perché quello che sembra un arrivo, è in realtà solo un punto di partenza.
Cos’è successo davvero e che cosa ha riconosciuto l’Unesco
Arriva al traguardo un progetto iniziato nel 2020 da La Cucina Italiana, Accademia Italiana della Cucina e Casa Artusi: la cucina italiana entra nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. Una proclamazione arrivata a Nuova Delhi, dopo anni di dibattito, revisioni e non poche controversie. Ma l’Unesco non ha riconosciuto ciò che molti stanno celebrando. Non esiste un’essenza della cucina italiana, e il dossier presentato per ottenere la candidatura non parla né di ricette né di tradizioni canoniche né della “vera” identità gastronomica nazionale. Anzi: certifica per la prima volta la non-esistenza di una cucina italiana unitaria, intesa come repertorio stabile. Su queste pagine avevamo aperto un dibattito proprio su questo, e il professor Massimo Montanari, che ha steso il dossier insieme a Pier Luigi Petrillo, aveva risposto ai nostri dubbi proprio sottolineando questo tema. Il riconoscimento riguarda il ruolo culturale e sociale che il cibo ha nella vita degli italiani, la relazione profonda tra cibo, territorio, paesaggio, stagioni e quotidianità; la convivialità, il gesto dello stare insieme, il cucinare come atto comunitario; la natura aperta, meticcia, dialogante della cultura gastronomica italiana.
È un patrimonio immateriale fatto di gesti, narrazioni, relazioni: non un prontuario di ricette da difendere, ma un ecosistema culturale che vive grazie alla sua capacità di cambiare.
Che cosa succede ora: opportunità e responsabilità
La proclamazione Unesco non è un punto di arrivo: è l’inizio di un processo. Significa che l’Italia deve ora predisporre piani di salvaguardia del patrimonio culturale riconosciuto, garantire la trasmissione intergenerazionale dei saperi gastronomici (e già qui abbiamo molto da lavorare, visto che le nuove generazioni non hanno nonne cucinanti, figuriamoci le madri), promuovere la consapevolezza pubblica del significato culturale del cibo (idem come sopra: cibo e cultura non sono certo un binomio celebre quanto recensioni e ricette), monitorare negli anni la vitalità delle pratiche che costituiscono il patrimonio.
Nel concreto: più programmi educativi, più attività culturale sul tema, più attenzione alla biodiversità, più sostegno ai territori e ai produttori, più ricerca. E, inevitabilmente, un aumento dell’interesse turistico e mediatico.
Come la stanno comunicando le istituzioni e perché
Il modo in cui l’annuncio è stato accolto in Italia rivela un equivoco profondo. Molte istituzioni hanno comunicato il riconoscimento con toni da tifoseria nazionale. Il caso più emblematico è la nota di Coldiretti, che ha parlato di vittoria contro l’“italian sounding” e di difesa della “vera tradizione culinaria nazionale”, ma non è l’unico caso. Siamo stati invasi di comunicati e di proclami di ogni ente, istituzione, consorzio che si è sentito parte della vittoria che sta cavalcando senza remore, come se dentro questo riconoscimento ci possa essere di tutto, di più e il suo contrario. Il paradosso è evidente: il dossier Unesco sostiene esattamente il contrario. Non esiste una “vera tradizione unitaria”, non esistono ricette immutabili, non esiste un patrimonio da congelare. La forza della cucina italiana è proprio la sua elasticità, che è poi la ragione unica del suo straordinario successo.
Perché allora le istituzioni comunicano così? Abbiamo scritto più volte che il cibo è uno strumento potentissimo di identità collettiva, e il riconoscimento Unesco (guarda caso sostenuto da questo governo e non da altri prima) è percepito come un asset politico. Nel dibattito pubblico c’è sempre fame di narrazioni semplici, rassicuranti e patriottiche, anche quando contraddicono la realtà dei fatti. L’industria agroalimentare, ma anche quella turistica, hanno tutto l’interesse a trasformare questo simbolo in una leva commerciale: più di un professionista del settore ha commentato che se serve a farci vendere di più, va comunque bene.
Ma questa comunicazione rischia di tradire lo spirito del riconoscimento, trasformandolo in una bandiera anziché in una responsabilità culturale.
Farà bene all’Italia? Probabilmente sì, se sapremo usarlo bene
In effetti, la visibilità e la eco di un riconoscimento Unesco possono portare benefici reali: maggiore visibilità internazionale della nostra cultura gastronomica, rafforzamento del turismo enogastronomico, sostegno a pratiche agricole sostenibili e alla difesa della biodiversità, valorizzazione delle comunità locali e delle cucine regionali, nuove opportunità educative e culturali. Può inoltre aiutare l’Italia a raccontare sé stessa meglio, con più profondità e meno stereotipi, mettendo al centro la relazione tra cibo, territorio e cultura. È anche un’occasione per riportare l’attenzione sulla cucina domestica, quella che tiene viva la trasmissione dei saperi più di qualunque ristorante stellato. Gli chef sono stati utili a promuovere la candidatura, ora ridiamo valore alla cucina quotidiana.
I rischi connessi: quali errori dobbiamo evitare
Il riconoscimento apre porte, ma anche trappole. Il rischio più grande, messo in luce da tanti critici, è la museificazione: trattare la cucina come un fossile, anziché come un organismo vivo, congelare ciò che deve restare fluido è la strada più veloce per snaturarlo. E va esattamente nella direzione contraria del riconoscimento.
Poi c’è la questione più volte messa in luce dal nostro giornale, che riguarda il nazionalismo gastronomico: la proclamazione non è un certificato di superiorità né un’arma contro altre cucine. È l’opposto: riconosce la natura inclusiva e ibrida della cultura gastronomica italiana. Non difende ma premia. E accanto a questo, un altro rischio è la semplificazione commerciale, con il marchio Unesco trasformato in etichetta di marketing e le parole preferite da un certo tipo di propaganda diventino quelle prevalenti: “autentico”, “vero”, “tradizionale”, proprio quelle da cui il dossier prende le distanze. Tra l’altro, prese a modello dai poteri che le mistificano, come consorzi, lobby o istituzioni politiche che non sono certo custodi della cucina italiana nella sua essenza sociale e culturale. Ma il rischio peggiore è il travisamento del messaggio Unesco: il vero patrimonio non sono gli ingredienti o le ricette, ma la capacità tutta italiana di cambiare, assorbire, mescolare, trasformare. È questo che va protetto, è questo che è stato decretato patrimonio immateriale. Se mettiamo il bollino sulle ricette, sugli chef, sui prodotti autenticamente italiani tradiamo il messaggio e tradiamo il senso stesso della capacità della cucina italiana di essere contaminata, inclusiva, terrene di scambio e di miscellanea. La sua essenza comunitaria, che accoglie e rielabora.
Il riconoscimento Unesco non ci consegna una cucina più “vera”, ma ci ricorda che è vera proprio perché non è mai stata una sola. È un invito all’attenzione, certo, ma anche alla responsabilità: custodire la diversità, difendere l’ibridazione, evitare letture nazionaliste, promuovere un racconto adulto e non folkloristico del nostro patrimonio. La cucina italiana non entra all’Unesco per essere messa sotto vetro: ci entra perché continua a muoversi. Lasciamola andare.
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