La discussione sulle pensioni è una cosa seria, non lasciamola a Salvini

Dicembre 22, 2025 - 15:31
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La discussione sulle pensioni è una cosa seria, non lasciamola a Salvini

Se anche voi avete genitori, parenti, zii, amici che stanno pensando se e quando andare in pensione, questa è l’occasione per dire loro di lavorare un altro po’. Se possono, ovviamente.

Il dietrofront del governo sulle modifiche alle pensioni introdotte nella manovra, dopo lo scontro tutto interno alla Lega tra Giorgetti e Durigon, dimostra da una parte quanto il tema sia serio e dall’altra quanto sia politicamente incandescente. Oltre al fatto che tutta la propaganda sull’«abolizione della legge Fornero», fatta da destra, sinistra e sindacati, sia in realtà – appunto – solo propaganda. La verità è che se si vogliono tenere i conti in ordine, la controriforma delle pensioni non si può fare. Punto.

In un Paese come l’Italia con una spesa pensionistica altissima e un sistema previdenziale minacciato dall’«eccezionalità demografica» – cioè pochi giovani e aumento dell’aspettativa di vita – per far quadrare i conti le cose da fare sono due: aumentare l’età in cui si va in pensione man mano che aumenta l’aspettativa di vita e aumentare la forza lavoro che paga i contributi su cui si reggono gli assegni pensionistici.

E invece in questi anni sono stati spesi molti soldi sulle famose quote leghiste, 100 e successive, somma di età e di anni di anzianità di servizio, e sulle temporanee eccezioni alle regole, per ingraziarsi gli elettori aumentando il numero dei pensionati e non il numero dei lavoratori.

Nel 2024 l’Italia ha speso circa 355 miliardi di euro in pensioni, che rappresentano ormai da tempo la principale uscita del bilancio pubblico. A scapito di altre voci, come la sanità o l’istruzione. Questa cifra, con l’invecchiamento della popolazione, è destinata ad aumentare.

Ma il sistema pensionistico pubblico è una sorta di contratto tra generazioni: i contributi che versiamo mentre lavoriamo sono spesi per pagare le pensioni dei nonni, delle madri e dei padri. Da una parte, più loro continueranno a lavorare, più sosterranno a loro volta le pensioni degli altri. Dall’altra parte, però, se non aumentiamo anche il tasso degli occupati che pagano le tasse, non riusciremo più a sostenere la spesa per gli assegni.

L’equilibrio di questo contratto – come spiega Elsa Fornero – dipende da tre cose: demografia, occupati e retribuzioni.

Già oggi, in alcune regioni italiane i pensionati già superano i lavoratori attivi e questa situazione sarà sempre più frequente. Il cosiddetto tasso di dipendenza degli anziani, dato dal rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella in età di lavoro, è destinato in Italia ad aumentare, secondo l’Ocse, dall’attuale 41 per cento al 76 per cento circa entro il 2060.

Non solo perché il tasso di natalità cala e siamo sempre di meno, ma anche perché lavoriamo poco.

L’Italia, infatti, nonostante l’aumento di occupati degli ultimi anni, ha il tasso di occupazione – al 62,7 per cento – tra i più bassi d’Europa (insieme a Grecia e Romania). E con l’inattività al 33,2 per cento, significa che circa un terzo della popolazione italiana in età attiva oggi non ha un lavoro e non lo cerca nemmeno. Mentre il tasso di occupazione femminile, fermo al 54,2 per cento, il più basso del continente, ci dice che quasi una donna italiana su due non lavora.

Come ha spiegato Pietro Ichino, «la scarsa partecipazione femminile alle forze di lavoro e il tasso abnorme di disoccupazione giovanile possono essere oggi motivi di speranza: si tratta di due grandi “serbatoi” ai quali possiamo attingere per aumentare le forze di lavoro». In più, «un’altra grande riserva di lavoratori attivi a cui attingere, poi, sarebbe costituita dall’immigrazione, se sapessimo gestirla in modo efficiente».

L’altro elemento di debolezza poi sono i bassi salari italiani. Se gli stipendi sono bassi, se i contratti sono a singhiozzo e non c’è continuità lavorativa, anche le pensioni saranno basse, al di là delle roboanti promesse politiche.

E nonostante negli ultimi anni ci sia stato un aumento dell’età in cui si va in pensione, la durata effettiva della vita lavorativa in Italia resta ancora tra le più corte d’Europa. Negli ultimi dieci anni, la media europea è passata da 34,9 a 37,2 anni, con un aumento di 2,3 anni. L’Italia segue la tendenza, la vita lavorativa media si è allungata sì, ma poiché partivamo da una posizione più bassa, siamo ancora a 32,8 anni nel 2024.

L’Italia si colloca quindi penultima nell’Ue, davanti soltanto alla Romania (32,7 anni). All’opposto, nei Paesi del Nord Europa — come Svezia, Danimarca e Paesi Bassi — si superano spesso i 40 anni di lavoro, mentre nel Sud e nell’Est i valori restano più bassi. Va peggio sul fronte del lavoro femminile: le donne italiane lavorano in media 28,2 anni, il dato più basso d’Europa, pari a nove anni di differenza rispetto agli uomini.

E poi bisogna considerare che esiste ancora un numero consistente di persone andate in pensione ben prima dei requisiti ordinari. Secondo l’Inps, oggi circa 400mila percepiscono la pensione da più di quarant’anni (!).

Risultato: nonostante l’età pensionabile italiana oggi sia tra le più alte in Europa, a causa delle leggi passate, tra sistema retributivo e pensioni anticipate, in realtà solo il 46 per cento degli italiani tra i 50 e i 74 anni lavora realmente, uno dei tassi più bassi del continente.

È evidente, a questo punto, come le politiche pensionistiche non siano un tema isolato da trattare a parte, ma richiederebbero lungimiranza e una visione complessiva dell’economia e della demografia a lungo termine. Eppure oggi sono le politiche più delicate e meno praticate. Pensiamo alla Francia, dove appena si tocca l’età pensionistica si proclamano scioperi generali e cadono i governi.

Ecco perché, come è accaduto con l’emendamento alla manovra poi stralciato, si procede un po’ in sordina, sperando che nessuno se ne accorga, e con piccoli aggiustamenti, in questo caso aumentando le finestre pensionistiche e modificando le regole del riscatto della laurea.

Scrive invece Elsa Fornero: «Riconoscere questo scenario è dovere civico di chiunque gestisca la spesa pubblica. Perseverare invece nella stolta idea che sia ancora possibile ridurre l’età di pensionamento o renderla flessibile senza parallela correzione dell’importo della pensione; o abolire l’indicizzazione dell’età di uscita all’aspettativa di vita, meccanismo di salvaguardia del sistema contro prospettive di un suo collasso finanziario, è ingannare i cittadini». E l’inganno non è minore quando si dice che si può andare in pensione con una certa quota, alla quale però si aggiungono 3 o 6 mesi quindi di fatto restringendo i requisiti. Si prende qualche voto in più, si mette una toppa ai conti dell’Inps e al resto ci penserà poi chi viene dopo.

La nuova versione dell’emendamento alla legge di bilancio sulle pensioni – arrivato alla terza riscrittura – che ha fatto esultare i salviniani della Lega, ne è la prova: non cancella ma attenua le restrizioni al pensionamento anticipato, consentendo di dire a tutti di aver vinto. Si mitigano le norme e si rinviano al futuro le misure sgradite agli elettori, senza però risolvere nulla e soprattutto senza spiegare cittadini-elettori qual è la reale situazione dei conti e come sarebbe giusto affrontare la questione previdenziale.

Bankitalia ci ha già avvertito qualche mese fa: nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di lavoro e la produttività oraria italiani rimarranno uguali a oggi, il calo della popolazione in età da lavoro porterà a una diminuzione del Pil del 6,8 per cento entro il 2050.

Nel 2040 la cosiddetta «gobba previdenziale» toccherà il suo picco massimo al 17 per cento del Pil, con l’entrata a pieno regime del contributivo puro e la discesa del peso della previdenza sui conti pubblici. Fino ad allora, però, la contabilità nazionale si muoverà sul filo delle prossime promesse elettorali.

Ma con un elettorato sempre meno giovane, la tendenza dei politici è quella di occuparsi dei pensionati di oggi o di quelli che verranno di qui a poco, aumentando il debito pubblico che grava sulle spalle di chi oggi ha 30 o 40 anni.

Da qui al 2027 ne vedremo delle belle.

 

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