L’evoluzione del linguaggio politico, e l’efficacia della retorica populista

Agosto 7, 2025 - 22:00
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L’evoluzione del linguaggio politico, e l’efficacia della retorica populista

Se qualcuno pensa che il linguaggio sia accessorio, secondario o rappresenti solo la superficie della politica – che sarebbe ben altra e ben diversa – smetta di leggere questo articolo. L’idea qui sostenuta, al contrario, è che tutta la comunicazione sia politica, anche se non tutta la politica è comunicazione; ma anche in questi casi, persino quando è coagulo di interessi, ambizioni personali o sport di contatto, alla fine dovrà pur persuadere, esprimersi, trovare il suo linguaggio.

In sostanza, chi controlla il linguaggio controlla la politica. Fermiamoci qui, senza scavare ulteriormente su questo tema, perché è urgente rispondere a queste domande: perché il linguaggio populista è così efficace? Ci può essere, o qual è la possibilità, di un linguaggio non populista che sia efficace quanto il primo?

Il linguaggio ha i suoi mezzi e questi danno forma alla comunicazione. Se cambiano i mezzi della comunicazione, cambia il linguaggio e cambia la politica. Qualche esempio? Nella Prima Repubblica dominavano i partiti organizzati e i partiti erano dominati dalle parole, perciò c’era molta lettura dei giornali (ogni politico, anche medio, aveva sottobraccio il classico fascio di quotidiani), c’erano riviste di approfondimento politico ovunque, c’erano riunioni di sezione in cui dibattere delle parole scritte, cui si aggiungeva qualche libro formativo.

Le sezioni comuniste, socialiste, democristiane e liberali hanno vissuto delle discussioni sulle ideologie, cioè sulle parole scritte. Forse era un metodo troppo pedagogico, forse era legato ai bassi livelli d’istruzione, forse era la conseguenza di una visione del popolo come organismo deliberante, fatto sta che la comunicazione della Prima repubblica era fatta tutta di parole scritte o declamate (nei comizi) pensate dall’alto e discusse dal basso.

La Seconda Repubblica nasce e cresce con la televisione: alla parola scritta si sostituisce il linguaggio televisivo. Il linguaggio politico cambia di conseguenza. Silvio Berlusconi è stato il capostipite in Italia, ma già negli Stati Uniti si era da tempo nell’era dell’advertisement, ad esempio con il celebre massaggio pubblicitario di Lyndon Johnson, “Daisy” (la bambina con la margherita) del 1964 sul pericolo nucleare sovietico.

Non c’è più bisogno di riunire le persone nelle sezioni, basta averle davanti al video. Il popolo diventa audience. Questo cambia i meccanismi persuasivi: prima lasciati al turbinare delle parole, adesso al turbinare delle trasmissioni televisive. Non serve dilungarsi su questo, annotiamo però un punto che ci servirà: adesso, con la tv, il tempo di incorporazione, elaborazione e sedimentazione della comunicazione è molto più breve rispetto alla carta stampata o agli incontri personali in sezione: si reagisce all’immagine in pochi istanti: si cambia canale, o si resta dove si è.

Arriviamo all’oggi, quando il mezzo dominante è internet, con i social media. Il linguaggio della politica cambia di nuovo e in molti modi che qui possiamo solo riassumere: dominio delle immagini e poi dei video a cui si reagisce in tempi istantanei; comunicazione peer-to-peer (cioè tra pari, o supposti tali) e non più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso il basso, inclusa anche l’interpretazione dal basso di tutto ciò che viene dall’alto; formazione di bolle autoreferenti (nessuno più vede quello che vedono tutti, la base antica della formazione dell’opinione pubblica, ma ognuno ha il suo palinsesto personale); soprattutto, nella gara feroce a conquistare l’attenzione, si stabilisce il dominio dell’emozione perché nessun ragionamento sarà più emozionante (per altro, non ne avrebbe il tempo) di un’immagine o di un video.

Se per Wittgenstein «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», allora i limiti (cioè la natura) della politica sono i limiti del suo linguaggio. O meglio, i limiti dei mezzi che usa per comunicare.

Per capire i perché del successo della comunicazione populista abbiamo bisogno di una referenza teorica, quella di Daniel Kahneman, e del suo pensare veloce, pensare lento, «thinking, fast and slow». Abbiamo due sistemi di pensiero: uno veloce, immediato, intuitivo che non richiede sforzo, e l’altro lento, riflessivo, logico, che richiede attenzione e concentrazione. Il pensare politico appartiene al primo sistema.

Ci si domanda perché la politica, che invece dovrebbe essere il luogo del raziocinio per eccellenza, dove la necessità di pensare il bene comune ovviamente non può scaturire dal primo pensiero che passa per la mente, ma da una qualche dose di riflessione, appartiene al primo sistema, veloce e intuitivo?

La risposta comprende più punti: anzitutto il mezzo della comunicazione, che oggi impone un pensare veloce (non ci si mette a riflettere e ponderare davanti a un tweet, meno che mai davanti a un TikTok); il pensare veloce, a sua volta, ha bisogno dei bias cognitivi e la politica funziona proprio così, fa leva sui pregiudizi, positivi o negativi che siano, anche se non sempre e non per tutti, ma in gran parte è così; inoltre, i contenuti populisti sono facilmente traducibili in termini emozionali. Da dove nasce, alla fine, la retorica delle emozioni?

Nella retorica populista c’è l’eterna rappresentazione della lotta tra buoni e cattivi. Con cui si introduce nella politica una categoria inedita (sempre presente nelle fiabe, ma inedita in politica) secondo la quale tutta la storia del mondo, inclusa questa, specialmente questa, è fatta dalla battaglia dai soggetti della virtù che combattono il male, dove tra i primi c’è il popolo, mentre le élite incorporano il secondo. È il classico “noi” e “loro”.

Ci dev’essere però qualcosa di ancora più antropologico rispetto a questo schema ben noto. Qualcosa che induca, nello specifico, a usare i social media come una necessità inderogabile, incluso l’odio. La tesi affascinante è di Mark Edmundson (“The Age of Guilt: The Super-Ego in the Online World”) che utilizza la psicoanalisi freudiana per esaminare e spiegare il clima culturale e sociale tossico dell’era digitale.

Quando il nostro Super Io collettivo ci tormenta con un senso di colpa e di inadeguatezza, una strategia per alleviare questa pressione è proiettare il giudizio sugli altri. È esattamente ciò che accade sui social media: le persone, sentendosi in difetto o insicure, puntano il dito contro gli altri per presunte infrazioni morali. Non sapendo più con certezza (perché i media mainstream vivono in un eterno relativismo valoriale) cosa sia la buona vita, ci accontentiamo della vita invidiabile, da qui la ricerca ossessiva di attenzione da un lato e la costruzione di un sé attraverso l’odio, dall’altro: odio, dunque sono. Ci si può definire – si può definire il sé – attraverso l’odio.

Secondo Friedrich Nietzsche, le persone preferiscono avere il vuoto come scopo piuttosto che essere prive di scopo. Agisce in più anche un altro corto circuito: la ricerca individuale di attenzione, contrappeso alla percezione (forse) inconsapevole della impossibilità di scardinare il sistema, di abbattere “loro”, che però finisce soltanto a raccogliere altri reciproci, identici stati d’animo, anch’essi alla ricerca di attenzione e con gli stessi moventi: «Urliamo il nostro nome tutto il giorno e tutta la notte a quello che speriamo possa essere un gruppo di ammiratori, ma che in realtà non è altro che un pantano popolato da altri noiosi auto-proclamatori». L’insieme costituisce il Super Ego collettivo.

Se questa è la natura profondissima da cui sgorga il linguaggio populista, che udienza volete che riceva un discorso razionale sulla politica, cioè sulle cose da fare per risolvere i problemi? Cosa ci può essere di più emozionale della propria stessa esistenza? È evidente che le due forme di linguaggio, quella populista e quella “razionale”, siano mondi separati. Per trovare una qualche forma d’ascolto della politica non-populista bisogna incorporare alcune delle forme emozionali della comunicazione. Non si tratta ovviamente di proporre un odio simmetrico con target diversi, ma di parlare a mondi che oggi sono disponibili ad ascoltare solo qualcuno con cui si possano connettere sentimentalmente. Questa è l’altezza della sfida, complicata, anzi complicatissima, ma possibile. Vediamone i tre punti più importanti.

Innanzitutto, ci vuole una meta-attitudine, cioè qualcosa viene prima delle questioni politiche vere e proprie, che crei quella connessione sentimentale di cui si è detto, fatta di “empatia narrativa” (capisco il tuo punto di vista), “empatia emozionale” (capisco la tua situazione concreta) e un riconoscere/rispettare l’altra parte (hai diritto di dire la tua).

Un secondo punto è l’uso dei “noi”, inclusivo non solo delle minoranze, ma anche delle maggioranze. D’altro canto, è stato proprio Barack Obama (uno che di connessioni sentimentali se ne intende) a dire che la più potente singola parola nella nostra democrazia è “noi”. Questa prospettiva è totalmente necessaria. Ma su cosa si può fondare il “noi”, cioè su quale terreno comune? Non può che essere il Paese, la nazione, la comunità nazionale. Poi si possono aggiungere anche altri elementi, ma quasi per definizione, questo è il terreno su cui un “noi” inclusivo si può sviluppare.

Incoraggiare l’unità è qualcosa che fino a pochi anni fa era quasi il “mantra” del mondo democratico e di sinistra, perciò non è una scoperta. La polarizzazione più si accentua e più fa vincere il populismo, perché i suoi richiami sono più “ancestrali” di quelli del polo opposto.

Su cosa poi si costruisce la prospettiva del “noi”? Non può essere quella di un messaggio generale negativo (come, ad esempio, il senso di colpa, tanto gigantesco quanto infondato, dettato dall’idea che il mondo occidentale, lo sviluppo economico, il sapere e persino l’uomo, in quanto entità storica, siano responsabili della distruzione del pianeta e di tutte o quasi le ingiustizie del mondo).

Bisogna riaffermare il senso della vita in un mondo che si presenta troppe volte come negativo. È il concetto di speranza, quello che ha fatto vincere Obama, e prima Martin Luther King e prima ancora Lincoln, che sollecitava “i migliori angeli della nostra natura” per fermare la secessione razzista del sud. Solo la speranza che promette di risolvere insieme i problemi di tutti, cioè della comunità nazionale, può contrapporsi emotivamente a un’idea di rancore sociale alimentata dal mancato riconoscimento della propria sofferenza e rompere quella polarizzazione noi-loro che sta alla base della narrativa populista.

Ci sono esempi di successo di una comunicazione politica così impostata (da quello di Jacinda Ardern, ex premier neozelandese, con il suo «be kind, be strong» durante il Covid e, in generale, campionessa della comunicazione diretta, empatica, appassionata, rispettosa e onesta a quello di Keir Starmer, molto chiaro, netto, persino duro e insieme compassionevole, carico di integrità e con una grande forza morale e di serietà della classe dirigente).

Abbiamo cominciato con il linguaggio e abbiamo finito con le strategie politiche, ma avremmo potuto comunicare con le strategie politiche e avremmo comunque finito a parlare del linguaggio. Le due cose – l’abbiamo capito – sono una cosa sola. Come il Paese.

Quarto di una serie di articoli su “Cosa fare con il populismo”.

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