Moda di lusso in crisi di autenticità: ma il vero problema sono le copie?
Nelle ultime settimane TikTok è stato invaso da clip che sostengono di “svelare la verità” sul lusso: (presunti) artigiani cinesi si fanno riprendere mentre confezionano borse Hermès, Chanel e Gucci che si possono comprare a un decimo del prezzo del negozio perché sono private del logo pur mantenendo «same quality, same material» (e ve la vendono con la dust bag delle aziende europee). Di più: introducono l’idea che le borse “originali” – pelle Togo, filati Fil Au Chinois – siano realizzate a mano esattamente lì, nei laboratori di Guangzhou: un totale di circa 1400 dollari di una Birkin.
Secondo il narratore, in Francia e in Italia ci si limita a mettere qualche zip, a sistemare qualche vite e a imprimere il marchio. «Hermès vi fa pagare 38mila dollari perché il 90 per cento del costo è dovuto al logo. Se questo non vi interessa, compratela da noi». Non stupisce che abbiano raccolto milioni di visualizzazioni. Si gioca sulla frustrazione del consumatore. Ora, la domanda è: perché venti o trent’anni fa non avremmo creduto neanche per un attimo a questi video, bollandoli come autori di tarocchi (ben fatti, certo) e invece, per un tragico momento, ci crediamo, compresi coloro che, come noi, sono cresciuti nella religione del Made in France e del Made in Italy e salutano come un dogma il concetto di savoir-faire?
Quelle tre parole – artigianalità, esclusività, inaccessibilità – basta(va)no a giustificare cifre con tre zeri. Una cosa è certa: ora entrambe le parti in causa sono in subbuglio. Alcuni commentatori definiscono i video delle fabbriche cinesi “un grande fuck you al capitalismo occidentale” dopo i dazi imposti da Trump. Altri sostengono che sia la prova di come l’industria della moda sia costretta a cambiare; i grandi brand del lusso negano con veemenza che i loro prodotti siano realizzati in Cina. La parte interessante non è se qualche persona in più inizierà ad acquistare modelli direttamente dalla Cina, ma come una trovata del genere sia diventata così enorme. Non è solo l’algoritmo a fare da complice. È la crescente disillusione di una generazione che ha visto la qualità scivolare mentre i prezzi salivano come la temperatura del pianeta.

Hermès. Dalla sfilata primavera estate 2025.
Alto scadimento
A proposito: dietro la crisi del lusso non c’è solo la sfiducia. C’è anche la realtà più tangibile, e meno seducente, della materia prima. Quella che non si vede nei post Instagram ma si sente al tatto, dopo il secondo inverno. La pelle, il cashmere, la lana: tutte le fibre nobili che un tempo giustificavano i prezzi da iperuranio oggi si sono fatte fragili, leggere, effimere. Peggiorate. E non per colpa delle maison. Il colpevole? Il clima. Ovvero nous-mêmes, per dirla alla Camus. Il riscaldamento globale, l’inquinamento, la desertificazione: tutto ciò che tiene svegli gli scienziati, ma che raramente penetra il mondo ovattato del prêt-à-porter. Eppure, i dati parlano chiaro. In Mongolia, patria del cashmere più fine, le capre producono un sottopelo più corto e più rado a causa degli inverni troppo miti. In Australia, patria della lana merino, gli allevatori sono stati costretti a ridurre il numero di capi a causa della siccità cronica e degli incendi. Il risultato? Fibre più corte, meno elastiche, meno resistenti. Secondo uno studio pubblicato dall’AWI (Australian Wool Innovation), le fibre raccolte dopo estati particolarmente calde tendono a spezzarsi più facilmente e a perdere uniformità. Il che si traduce in filati più deboli, tessuti meno durevoli, maglioni che dopo due stagioni sembrano usciti da un cesto della Caritas.

Chanel. Dalla sfilata primavera estate 2025.
E le pelli? Anche peggio. L’allevamento sotto stress idrico produce animali malnutriti, con pelli più sottili e meno compatte. A questo si aggiunge la scarsità d’acqua nei processi conciari e l’aumento della salinità dei suoli nelle zone di pascolo. Il risultato è una materia prima che costa di più ma dura di meno. Morale: una borsa che nel 2003 costava duemila euro ed era fatta per durare vent’anni, oggi ne costa seimila ma dopo tre inverni ha già i manici screpolati. Non è solo una questione di marketing o profitto. È che i materiali non sono più quelli di una volta. Letteralmente. Come scrive Jennifer Francis, scienziata climatica, «i tessuti diventeranno sempre più costosi, o semplicemente non disponibili». E mentre Google e WWF mappano i rischi climatici delle fibre naturali (vedi il progetto Global Fibre Impact Explorer), le maison continuano a vendere l’illusione della consistenza, della permanenza, del “per sempre”. Quando invece, come diceva Barthes parlando del prêt-à-porter, “la moda è l’organizzazione dell’obsolescenza”. Oggi, con la benedizione della CO₂.

Louis Vuitton. Dalla sfilata primavera estate 2025.
Il silenzio dei marchi
E i brand? Si muovono come regine durante un colpo di stato: silenziosi, impassibili, troppo nobili per replicare agli insulti del popolo. Silenzio principesco, come si addice a chi non può permettersi la volgarità della replica. LVMH non commenta. Chanel smentisce timidamente (ma poi ritira un video in cui le sue borse sembravano troppo “meccanizzate”, cucite da macchinari anziché da mani esperte). Hermès si limita a dire, al New York Times, che «le nostre borse sono fatte al 100% in Francia». A parte qualche comunicato anonimo e l’occasionale smentita a mezza voce, il grande sistema del lusso sembra incapace – o peggio, indisposto – a difendersi.
Paul Argenti, docente di comunicazione d’impresa alla Tuck School of Business, è stato chiaro: «Essere trasparenti, oggi, è una necessità, non un’opzione». Ma il lusso, notoriamente, non ama la trasparenza. Ama l’opacità patinata, la narrazione controllata, il mito di botteghe senza tempo dove il tempo si è fermato – e con lui anche i salari, i fornitori, la geografia. Nel frattempo, la produzione si è globalizzata. Le etichette made in Italy, grazie a una legge del ’92 che ancora non è stata rivista, si riferiscono spesso solo all’ultima fase di confezionamento: una cucitura finale, un controllo qualità, una scatola sigillata. Il resto? Made in chissà dove. L’analista Luca Solca, in una nota per Bernstein, ha rivelato di aver visto casse di sneakers etichettate Made in Italy semplicemente perché erano state spolverate e inscatolate a Novara. Dana Thomas, nel suo imprescindibile saggio Deluxe. How Luxury Lost Its Luster, aveva già denunciato nel 2007 che «l’etichetta non è una garanzia, ma una finzione legalizzata». E allora non stupisce che i consumatori si sentano truffati. Soprattutto quando i prezzi lievitano come una pasta madre impazzita. Una Lady Dior che nel 2016 costava 3.200 euro oggi ne vale quasi 6.000. Ma con qualità percepita in calo, materiali meno duraturi e un senso di déjà-vu in ogni vetrina. In questo scenario, il “dupe” non è più il problema. È la risposta. Una forma di dissenso sartoriale, elegante quanto una battuta di Fran Leibowitz: «Non è che non posso permettermelo. È che non ho più intenzione di far finta che valga quei soldi». Forse, tutto si riduce a questo. Non è il prezzo che infastidisce. È il sospetto che ci stiano vendendo un’ombra. Un’ombra che un tempo si chiamava lusso. E oggi si chiama marketing.

Fendi. Dalla sfilata primavera estate 2025.
Dupe élégance
Chiamiamolo pure effetto Dupe Generation: la trasformazione culturale che ha sdoganato il falso senza vergogna, anzi, l’ha reso smart. Non è più contraffazione -reato, truffa, degrado morale – ma consapevolezza critica, una specie di vendetta postcapitalista in chiave Millennial. L’imitazione come rivincita dell’intelligenza sul feticcio. I numeri? Imbarazzanti. Su TikTok, l’hashtag #dupe ha superato sei miliardi di visualizzazioni. Secondo Business of Fashion, il 67 per cento degli under 25 ha acquistato almeno un dupe negli ultimi dodici mesi, mentre la fiducia nel valore reale dei prodotti di lusso è ai minimi storici.
Il dupe non è più un inganno, ma un gioco di ruolo. Non più l’imitazione povera, ma la reinterpretazione furba. Dalla borsa alla cintura, dalla fragranza alla ballerina, tutto può essere dupe. Tutto, tranne l’illusione che ci separa dal vero. Ma attenzione: il dupe non è un falso, è una categoria filosofica. Si potrebbe perfino evocare Platone, se fossimo abbastanza pretenziosi (e lo siamo). L’oggetto dupe non nega l’originale: lo cita, lo omaggia, lo sfrutta. È la riproduzione consapevole di un’aspirazione. È luxe pour les pauvres, ma senza la colpa cattolica. Perché allora ci sembra così dannatamente plausibile che Gucci e Chanel vengano prodotti nelle stesse fabbriche delle loro repliche cinesi? Forse perché ci siamo stancati di credere alle favole. Forse perché abbiamo capito che, nella moda contemporanea, il prestigio spesso pesa più del prodotto. O forse perché, come scrive sempre Dana Thomas, «molte maison di lusso non producono più artigianalmente da anni. Delocalizzano, massificano, moltiplicano». In tutto questo, il dupe si erge come un atto estetico, perfino politico. Un’irriverenza chic che non pretende di ingannare, ma di esistere al fianco dell’originale, come l’amante bistrattata che si concede il lusso di una vendetta sartoriale. Il pubblico approva. Perché il pubblico non è più quello della boutique con moquette di cashmere, ma quello del “guardo, confronto, condivido”. Non compra con gli occhi sgranati, ma con i filtri di Instagram. E se una Birkin è irraggiungibile, che almeno sia Birkin-like. D’altronde, come diceva un film con Marilyn Monroe e Jane Russell, «Gli uomini preferiscono le bionde, ma sposano le castane»: forse anche nel lusso, desideriamo l’originale, ma conviviamo felicemente col dupe. Un compromesso? No. Una nuova forma di realismo estetico.
The post Moda di lusso in crisi di autenticità: ma il vero problema sono le copie? appeared first on Amica.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




