Un Natale al di là del mare

Dicembre 24, 2025 - 08:28
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Un Natale al di là del mare

Non ricordo l’età esatta, ma ricordo tutto di quella notte della Vigilia in cui Babbo Natale – mia zia – lasciò dietro la porta di casa, a Messina, la Macchina del gelato Gig in collaborazione con Cameo. Forse è lì che capii quanto fosse incredibile il Natale, capace di unire i miei giocattoli preferiti al momento che più amavo: le tavolate in famiglia. Ebbi il tempo di scartarlo e basta, perché era tradizione andare subito alla messa della notte per godersi i canti, le chiacchiere in piazza, e quell’odore costante di baccalà fritto che si sprigionava da cofane di capelli laccati e maglioni eleganti dentro quella parrocchia a due passi dal mare.

Ero totalmente venduto al cibo già da piccolo e il Natale era il mio spettacolo preferito. Negli anni Novanta mio padre rincasava sempre con l’ennesimo calendario, un panettone Alemagna o una Strenna Motta con tanto di Asti spumante. Quello che oggi sembra orrore, un tempo era la norma oltre che un pensiero gradito. Osservavo crescere la pila di panettoni – certi non li avremmo mai mangiati – e ne lasciavamo uno solo sotto l’albero, aperto puntualmente il 6 gennaio con la frase di rito: «È finito il Natale e non abbiamo ancora mangiato un panettone».

Poi arrivò la moda del panettone artigianale, che superò pure lo Stretto senza bisogno del ponte. E da milanese della famiglia, oggi tocca a me portare il lievitato di Milano. Così ogni anno racconto questa evoluzione con un prodotto diverso. Dopo Marchesi, Elisenda, Pavé, Tiri, quest’anno sarà dedicato, paradossalmente, alle vibes del Sud: il panettone Anacaprese di Malìa – la pasticceria che porta i sapori di Napoli a Milano – e il Pandoro siciliano Di Stefano, il laboratorio agrigentino che reinterpreta i classici con ingredienti regionali.

Un antico problema di famiglia: i dolci
Nessuno però vuole mettere in secondo piano la pasticceria locale. Anche davanti al dolce più tradizionale, la tavola è un incastro di preparazioni fatte in casa o raccolte nelle pasticcerie della città. A ogni occasione mettiamo in tavola almeno due dolci (forse tre, ma non indignatevi: siamo sempre tanti).

Alla Vigilia c’è almeno un dolce fritto. Mia nonna, novantenne e festaiola, prepara le sfinci – zeppole impastate a mano con uva sultanina, ripassate nello zucchero. Mia madre risponde con le sfinci di riso: riso cotto nel latte con scorze di agrumi e cannella, impastato con farina e lievito, fritto e zuccherato. È un altro classico dei dolci poveri, un tempo venduto nelle stesse rosticcerie degli arancini. Presidio sempre la frittura: mangiarne una appena tolta dall’olio è magia; mangiarne due alle tre di notte, mentre gioco a carte, è la regola.

Segue il repertorio delle pasticcerie: il Bianco e Nero, dessert simbolo della città e ispirato al profiterole; la Stella di Natale della Pasticceria Irrera (pasta di mandorla, pan di Spagna, candito, mandorle all’esterno); i biscotti di Natale come la nipitellata, con frutta secca, canditi, confetture, pasta gianduia, cacao e cannella. E infine i cannoli, certo.

Durare da Natale a Santo Stefano
La cena della Vigilia è il momento più intimo: da quindici a venti persone, per uno dei pasti meno rituali per noi. Alcuni anni piatti di pesce, altri anni pitoni fritti: calzoni tipici messinesi ripieni di scarola, tuma, acciuga salata, sale e pepe. Li prepariamo in casa in un pomeriggio dedicato a impasti dolci e salati. In certe annate, invece, lasciamo fare ai professionisti: il Panificio di Francesco Arena è un riferimento assoluto.

Il pranzo del 25 dicembre è più ristretto e c’è un piatto che è tradizione di famiglia: il falsomagro di nonna Maria. Un rotolo di carne di vitello ripieno di macinato, prosciutto, caciocavallo e uova sode, cotto nel sugo di pomodoro. È un piatto fisso, spesso riproposto a Santo Stefano, perché nonna ne prepara almeno due.
L’intimità finisce nel pomeriggio, quando tutti i nipoti convergono in un’unica casa per altri dolci, carte e discussioni su cosa si mangerà a Capodanno. Il Natale nella mia famiglia non è solo un’esperienza, ma una prova di resistenza.

Sul pranzo di Santo Stefano sorvolo: se non ci sono avanzi, si imbastisce un pranzo «leggero»: che per le zie sono le cotolette fritte, ma di pollo. Auguri.

In ogni momento, immancabile il cesto di scàcci: noci, nocciole, castagne, arachidi, noci brasiliane, fichi secchi e mandarini delle campagne della periferia Sud della città.

Facciamo un’altra cena!
Se pensate che riunirsi nei giorni rossi sia troppo, allacciate le cinture. Nell’ultimo decennio abbiamo aggiunto una cena il 27 o 28 dicembre con un solo scopo: fare arancini. Una serata nata per i nipoti espatriati e diventata un rito. Zia Pina fa il sugo e cuoce il riso, zio Nino dà forma e impana. La frittura è collettiva. Diciotto persone, circa novanta arancini e la Birra dello Stretto, che ha sostituito la birra Messina, un tempo simbolo cittadino, oggi strappata alla comunità da un’Heineken poco scrupolosa.

Il Capodanno di RaiUno e un sombrero
Ricordo bene anni in cui eravamo ancora a tavola, dopo il cenone, dopo ore di giochi a carte, torroni e dolcetti. Ci si alzava solo quando era così tardi che bisognava già pensare al pranzo del 1° gennaio. Non ho mai capito quella gente che dopo la mezzanotte del 31 va a dormire, sono cresciuto con l’idea che la fine dell’anno non avesse la notte.

Oggi le cose sono un po’ diverse, ma l’energia di pensare a una festa di famiglia per il primo giorno dell’anno è intatta. Negli anni abbiamo inventato tradizioni e affermato piatti che non ci lasciano più. Ritroviamo un impegno collettivo che forse è l’unico spirito possibile per affrontare queste giornate.

A tavola siamo almeno in venti, con i nostri piatti di pesce: insalata di stocco tra gli antipasti (sfilacci di stoccafisso ammollato e crudo con capperi, olive, sedano, olio, sale, pepe), totani ripieni alla brace tra i secondi. Nessun primo, solo una zuppa di lenticchie di buon augurio e un menu che si alleggerisce per lasciare spazio a un mondo che cambia e ci chiede meno consumi. Tranne per i dolci, ovviamente: quelli arrivano poco prima di mezzanotte.

La selezione del vino per il brindisi è in capo a mio fratello che sceglie la bolla per tutti, a cui si aggiunge quella demi sec per zia Pina (quest’anno scelta da me dopo aver conosciuto Eleonora Bianchi e il suo demi sec biologico Terre d’Aenòr).

Il countdown è quello della Rai: resta lì dopo il discorso del Presidente e nessuno se ne cura. Botti, auguri, cheers, dolci e poi la tradizione alcolica di famiglia: gli shot di Tequila con sale di Sicilia e limoni monachello della campagna di mio padre. La novantenne Maria si ferma al primo, gli altri proseguono. Finita la prima bottiglia, si passa alla Espolon del supermercato Decò.

Poi avanti fino a notte: torroncini, tombolata, vini passiti, biscotti al sesamo, giochi a carte. I bambini crollano, noi ridiamo, ci godiamo un altro anno insieme e il rinnovo di una tradizione che è mia. Questo periodo non è un cliché forzato né un menu imposto: è un momento per fare e mangiare ciò che ci rende felici. È stare dove stiamo bene e anche dove serve la nostra presenza. Il vero Natale è quello che sentite di fare, non quello che si è sempre fatto. Purché ci siano i dolci!

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