Algeria. Il caso Boualem Sansal, ovvero la vendetta dello Stato debole
di Giuseppe Gagliano –
Quando un intellettuale finisce in carcere per aver espresso un’opinione storica, significa che lo Stato che lo incarcera ha paura. Paura delle parole, paura del confronto, paura della memoria. È il caso dell’Algeria di oggi, che ha deciso di fare di Boualem Sansal un capro espiatorio, un bersaglio simbolico da offrire all’opinione pubblica più rancorosa, mentre sullo sfondo si intrecciano crisi economiche, frustrazioni sociali e tensioni geopolitiche che nessun regime riesce più a contenere con la sola propaganda.
Nato nel 1949 a Theniet El Had, Sansal è stato per decenni una voce lucida e coraggiosa del mondo arabo e francofono. Un ingegnere diventato romanziere, un burocrate diventato dissidente, un musulmano laico diventato bersaglio di fanatici e censori. I suoi libri, ovvero 2084, Rue Darwin, Nel nome di Allah, hanno scoperchiato l’ipocrisia di un regime che si nutre di retorica antimperialista ma reprime ogni libertà interna. Un uomo che, per dirla tutta, ha pagato il prezzo di dire le cose come stanno: che l’islamismo ha soffocato il sogno dell’Algeria indipendente, che la dittatura ha preso il posto del colonialismo, e che le frontiere tracciate col righello dalle potenze europee continuano ad avvelenare i rapporti tra Stati e popoli.
La sua colpa, secondo il tribunale di Algeri, è aver detto in un’intervista che durante l’epoca coloniale la Francia avrebbe annesso algerinamente territori che appartenevano storicamente al Marocco. Una tesi controversa? Senz’altro. Una provocazione? Forse. Ma un reato? Assolutamente no. Eppure, l’Algeria lo ha arrestato il 16 novembre 2024, processato e condannato a cinque anni di carcere. Il 24 giugno, in appello, il procuratore ha chiesto di raddoppiare la pena. Dieci anni per un’opinione. In un Paese che si proclama democratico. In un continente in cui la primavera è ormai solo un ricordo amaro.
Il caso Sansal è molto più di un processo. È un termometro. Misura il grado di paura e di fragilità di un regime che, a dispetto della sua retorica rivoluzionaria, ha tradito ogni speranza di cambiamento. Da Hirak al silenzio: dopo le manifestazioni oceaniche del 2019, che costrinsero l’ex presidente Bouteflika a farsi da parte, l’apparato di sicurezza è tornato a esercitare il potere con pugno ancora più duro. Giornalisti incarcerati, oppositori zittiti, artisti perseguitati. Sansal non è che l’ultimo anello di una catena che da anni si stringe al collo della società civile.
Il contesto è internazionale, e tutt’altro che neutro. L’Algeria è impegnata in una guerra fredda regionale col Marocco, e guarda con sospetto alla svolta filo-rabat di Parigi, che nel 2024 ha riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale. In quel quadro, ogni parola che tocchi il nervo scoperto delle frontiere può essere strumentalizzata. Così è stato per Sansal. Così sarà per altri. La geopolitica diventa un manganello e la giustizia un’esecuzione pubblica.
Nel frattempo, la Francia si muove goffamente. Macron ha chiesto clemenza, non giustizia. Ha parlato di “umanità” e “salute precaria”, come se Sansal fosse un vecchio da compiangere, non un cittadino da difendere. I grandi nomi della cultura internazionale, Rushdie, Ernaux, Pamuk ,hanno firmato appelli, l’editore italiano ha lanciato raccolte fondi, i politici francesi hanno fatto dichiarazioni. Ma l’Algeria ha tirato dritto, negando addirittura il visto all’avvocato difensore francese. Un modo come un altro per dire: “Qui comandiamo noi. E chi tocca l’identità nazionale si brucia”.
Il verdetto è atteso per il 1 luglio. Ma la sentenza è già scritta: chi parla troppo, paga. E se poi lo fa con talento, con coraggio, con ironia, allora il prezzo raddoppia. Sansal lo sa. Eppure continua a parlare. In tribunale ha rivendicato il diritto alla libertà di coscienza sancito dalla Costituzione algerina. Ha detto che non voleva offendere nessuno, solo pensare ad alta voce. “Processano la letteratura”, ha denunciato. E ha ragione.
La sua battaglia è quella di tanti, in Algeria come altrove. In un mondo sempre più diviso tra chi pretende il silenzio e chi rivendica il diritto di parola, Boualem Sansal ha scelto da che parte stare. Pagherà con la prigione. Ma la sua voce continuerà a farsi sentire, come quella di Tahar Djaout, ucciso nel 1993: “Se parli muori, allora parla e muori”. O, come Sansal ha ribattuto: “Parlo, e cercherò di non morire”. Anche questa, in fondo, è una forma di resistenza.
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