Hong Kong. Altro giro di vite: taglia su 19 attivisti pro-democrazia rifugiati all’estero

Lug 26, 2025 - 15:30
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Hong Kong. Altro giro di vite: taglia su 19 attivisti pro-democrazia rifugiati all’estero

di Giuseppe Gagliano

Il 25 luglio 2025 segna un nuovo passo nella strategia repressiva del regime cinese: le autorità di Hong Kong hanno emesso mandati di cattura internazionali contro 19 attivisti pro-democrazia rifugiati all’estero, promettendo ricompense in denaro per chi contribuirà alla loro cattura. Al vertice della lista c’è Elmer Yuen, imprenditore e figura storica dell’opposizione, la cui “taglia” supera i 100mila euro. Gli altri attivisti sono “valutati” 21.700 euro ciascuno. Il crimine? Aver partecipato alla fondazione del cosiddetto “Parlamento di Hong Kong”, un’organizzazione con sede in Canada accusata di voler rovesciare l’ordine costituito in Cina.
La posta in gioco va ben oltre la sorte di 19 individui. Per la prima volta il governo di Hong Kong, e quindi di fatto il Partito Comunista Cinese, tenta apertamente di estendere la propria giurisdizione oltre i propri confini. È una dichiarazione di guerra alla dissidenza in esilio, un segnale chiaro a chiunque pensi di fuggire per continuare la lotta da lontano. La Cina non vuole più solo silenziare le voci interne: vuole stroncare quelle che riescono a sopravvivere oltre la muraglia digitale e il controllo fisico.
Pechino giustifica tutto con la legge sulla sicurezza nazionale del 2020, imposta a Hong Kong dopo le proteste oceaniche del 2019. Una legge che, dietro l’etichetta di “lotta al terrorismo” e “difesa dell’unità statale”, consente di perseguire qualunque attività politica sgradita. Il messaggio è chiaro: nessuno è al sicuro, nemmeno in esilio. La legge non ha confini, come non ne ha il potere del Partito-Stato. Il precedente è pericoloso, perché normalizza la repressione extraterritoriale come nuova prassi della politica cinese.
L’operazione ha anche un valore geopolitico. La Cina, sempre più assertiva, sta trasformando Hong Kong da hub finanziario internazionale in avamposto giuridico e repressivo. La metropoli che un tempo rappresentava la promessa di un’alternativa cinese al modello occidentale, oggi diventa l’espressione plastica della centralizzazione autoritaria. Con queste misure, Pechino mostra che il compromesso “un Paese, due sistemi” è definitivamente morto. Al suo posto, una sola voce, un solo partito, una sola legge.
Le implicazioni economiche sono tutt’altro che marginali. Hong Kong è ancora uno snodo cruciale per gli investimenti esteri in Cina, grazie a un quadro giuridico un tempo considerato solido e “internazionalizzabile”. Ma il clima di terrore politico sta logorando la fiducia degli investitori. Le banche occidentali iniziano a ridimensionare la loro presenza, le assicurazioni rivalutano i rischi di compliance e le multinazionali guardano a Singapore come nuova porta d’accesso all’Asia.
A lungo termine, questa dinamica può accelerare il disaccoppiamento tra l’economia cinese e quella occidentale. Se le aziende non possono garantire la sicurezza dei propri dipendenti né la neutralità giuridica degli assetti societari, la Cina – e con essa Hong Kong – rischia di perdere attrattività in settori chiave come la finanza, il lusso e i servizi.
Dal punto di vista militare e strategico, questa operazione ha anche un risvolto meno visibile ma rilevante. La Cina rafforza una rete di sorveglianza globale che si basa non solo sull’hardware (telecamere, riconoscimento facciale, droni), ma sul controllo delle narrative, la schedatura degli oppositori, la pressione psicologica. Il targeting degli attivisti all’estero rientra perfettamente in un modello ibrido di guerra cognitiva, in cui i confini tra intelligence, diplomazia e tecnologia sono sempre più sfumati.
Inoltre la messa a prezzo di individui rappresenta un pericoloso precedente che potrebbe essere imitato da altri regimi autoritari: criminalizzare l’esilio, monetizzare la cattura degli oppositori, usare la paura come strumento di governance globale.
L’aspetto più inquietante è il silenzio delle democrazie occidentali. Mentre Pechino compie questo passo gravissimo, nessuna grande cancelleria ha finora adottato misure concrete in risposta. L’Europa è paralizzata dalla dipendenza commerciale, gli Stati Uniti sono distratti dalle loro elezioni, e il Canada, sede del Parlamento di Hong Kong, esita a esporsi troppo. Ma l’inerzia rischia di legittimare questa escalation.
Non si tratta più solo di Hong Kong. Questa è una questione di ordine globale. Quando uno Stato si permette di colpire cittadini rifugiati all’estero e di farlo con mezzi economici, giuridici e simbolici, viene meno uno dei pilastri del diritto internazionale: l’impossibilità di esercitare coercizione oltre i propri confini senza mandato. Se questa linea rossa viene superata senza conseguenze, nessun dissidente, ovunque si trovi, potrà più sentirsi al sicuro. E nessuna democrazia potrà più dirsi immune dall’arbitrio.

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Redazione Redazione Eventi e News