Il pensiero orientale ha fatto del vuoto un principio di conoscenza e libertà

Dicembre 12, 2025 - 09:30
 0
Il pensiero orientale ha fatto del vuoto un principio di conoscenza e libertà

Per una strana forma di simmetria rovesciata, mentre in Occidente il concetto di vuoto si rivestiva sempre più di connotazioni negative, in Oriente accadeva esattamente il contrario. E tutto questo avveniva, grossomodo nello stesso periodo, attorno al VI-V secolo a.C. L’elaborazione del concetto di vacuità, nel buddismo, nasce direttamente dagli insegnamenti di Siddharta e dal suo percorso di vita ascetica e meditazione. L’esistenza di ciascun essere umano è impastata nel dolore, la sofferenza si intreccia strettamente con la vita. All’origine del dolore c’è il desiderio, la brama di raggiungere un obiettivo; persino la stessa aspirazione di liberarsi dalla sofferenza condanna, ineluttabilmente, al dolore. Ma quando il saggio raggiunge la consapevolezza che tutto è vacuità, che non esiste nulla che non sia privo di sostanza, ecco che comincia a prender forma la strada della liberazione.Il buddismo elabora una critica radicale dell’essere ontologicamente stabile. 

Non c’è nulla che abbia una qualche consistenza in sé. Tutto si inserisce in un sistema di relazioni. Una rete invisibile collega fra loro esseri viventi e oggetti materiali; tutte le cose e le persone che ci circondano si presentano come i nodi visibili di questa rete, ma sono privi di una qualunque consistenza oggettiva e indipendente. L’essere non esiste in sé, è pura illusione che condanna alla sofferenza. La vacuità, il sunyata, è il concetto centrale del buddismo; riuscire a dimorare in uno stato permanente di coscienza della vacuità è la condizione a cui tende il saggio. Lo svuotamento, che nasce dalla consapevolezza, procede per livelli successivi sempre più complessi. Per raggiungere i livelli più elevati di vacuità sono necessari anni di meditazione e di esercizio. 

Il buddismo ci porta letteralmente agli antipodi rispetto al pensiero occidentale, tutto orientato a definire il fuori da sé, il rapporto col mondo, con i nostri simili e la natura che ci circonda, sempre concentrato sui migliori strumenti per guidare l’azione, per intervenire nella società o per interagire con il mondo naturale. L’Occidente vede tutto “pieno”, a partire dall’io e dalle sostanze materiali che ci circondano, mentre l’Oriente si concentra a costruire consapevolezza del “vuoto” fuori e dentro di noi. 

Per il taoismo il concetto di vuoto è quasi elemento costitutivo, la colonna che regge tutta la costruzione. Già nel Tao-teching, il libro della Via e della Virtù, si parla a lungo del vuoto e della sua utilità essenziale. Gli esempi che vengono addotti hanno acquistato col tempo valore paradigmatico: la terracotta, di cui è fatto un vaso, ne definisce l’aspetto materiale, ma la vera funzione di raccogliere bevande o alimenti è espletata dalla cavità, dal vuoto di materia che essa “contiene”. Materia e vuoto, essere e non essere, sono due aspetti complementari e spesso inseparabili della realtà. Nel taoismo il vuoto acquista significato ontologico di costituente essenziale della realtà e merita assoluto rispetto. Non solo il vuoto esiste, ma ha una funzione fondamentale nel determinare l’azione umana. 

In Occidente l’agire dell’uomo, guidato dall’io e dalla sua volontà di potenza, si materializza nella tecnica, che modifica i processi naturali per piegarli a vantaggio dell’uomo. Il virtuoso, nel Tao, è colui che passa e non lascia tracce. Riconoscere il Tao non significa non agire, ma operare in modo da non perturbare gli equilibri naturali. Il vuoto di azione individuale comporta l’inserirsi in una dinamica più generale, nella quale si manifesta l’identità degli opposti: yin-yang, tenebra-luce, silenzio-rumore, quiete-movimento. È il punto immobile e vuoto di dimensioni, al centro del perno, attorno al quale gira la ruota del carro, a generare il movimento. 

Il segreto sta nella complementarità dei due elementi. Grazie all’influsso di maestri cinesi, il buddismo zen, che si sviluppa in Giappone attorno all’XI secolo, sarà dominato dal vuoto come entità a sé stante. Gli artisti di paesaggio, ispirati da questa filosofia, non rappresentano alberi o colline, ma mettono al centro della propria visione il “vuoto” che connette fra loro i vari elementi, ciò che li mette in relazione. Tutte le strutture materiali, persino quelle più imponenti come le montagne, evaporano nell’evanescenza più assoluta. Ciascuna cosa sembra sospesa, in eterna fluttuazione fra l’essere e il non essere. I colpi di pennello diventano allusivi, presenza e assenza si alternano di continuo. Tutto il paesaggio appare fluido, mutevole, metamorfico. Nel vuoto che separa le cose si riflette la sostanza stessa della realtà: nulla è consistente in sé, nulla è isolato e indipendente; il vuoto, che connette il pieno, lo svuota di significato. 

La familiarità col vuoto del pensiero orientale assume aspetti tanto sofisticati da spingere Martin Heidegger a parlare dell’Oriente come “casa del nulla”. Non deve quindi stupire che lo stesso concetto di zero, talmente osteggiato nel mondo greco da essere considerato, al pari dell’infinito, elemento sovversivo dell’ordine costituito, sia stato sviluppato da brillanti matematici nell’India del VII secolo d.C. Adottato dagli arabi, che lo chiamarono ṣifr, cioè “vuoto”, giungerà in Occidente molti secoli dopo; verrà introdotto da Leonardo Fibonacci che, per assonanza, tradurrà il latino zephirum nel veneziano zevero, che diventerà il nostro “zero”. Senza il “non numero”, che è anche il più potente fra i numeri, l’unico capace di annichilire, per moltiplicazione, qualunque altro numero incredibilmente grande, o di far espandere all’infinito, per divisione, ogni altro numero, per quanto piccolo, non saremmo andati molto lontano. 

Con l’introduzione dello zero, il pensiero orientale – che pone il vuoto al centro delle proprie riflessioni e che manifesta un inguaribile scetticismo verso la tecnica – finirà col dare un contributo decisivo allo sviluppo della matematica, che della scienza moderna costituirà la base. Questa propensione del pensiero orientale a riflettere sul vuoto scatenerà interesse e curiosità in molti scienziati moderni. L’idea di un vuoto pieno di tutto, la conciliazione degli opposti, l’interdipendenza fra osservatore e sistema sottoposto a indagine, l’unità profonda sottostante a fenomeni in apparenza contraddittori sono tutti concetti che sembrano aderire perfettamente alla nuova visione del mondo che nasce con la meccanica quantistica. 

Non deve stupire il fascino esercitato dal pensiero orientale su alcuni dei protagonisti delle rivoluzioni di inizio Novecento. Persino Niels Bohr rimase incantato dal taoismo, che conobbe in Cina nel corso di un suo viaggio. Rientrato in patria, quando il re di Danimarca gli conferì il titolo di cavaliere per meriti scientifici, scelse come simbolo araldico il cerchio bicolore, yin e yang intrecciati fra loro. A campeggiare, in alto, il motto latino: “Contraria sunt complementa”, “gli opposti sono complementari”. 

In effetti, con un po’ di fantasia, si possono trovare intriganti punti di contatto fra alcuni concetti della scienza contemporanea e le filosofie orientali. Qualche autore, travolto da eccessivo entusiasmo, arriva a sostenere che taoismo e buddismo sono confermati dalle scoperte scientifiche più recenti, altri tendono a conferire un’aura di misticismo al lavoro di noi scienziati. In realtà, neanche il pensiero filosofico-religioso sviluppato dall’Oriente può lontanamente competere con l’implacabile rigore e la potenza concettuale della fisica contemporanea.

 

Tratto da “L’eleganza del vuoto. Di cosa è fatto l’universo”, Guido Tonelli, Feltrinelli, pp. 192, 17,10 euro

L'articolo Il pensiero orientale ha fatto del vuoto un principio di conoscenza e libertà proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News