Sophie Kinsella, e tutti gli alias della scrittrice che non si è pentita di essere frivola

Dicembre 12, 2025 - 09:30
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Sophie Kinsella, e tutti gli alias della scrittrice che non si è pentita di essere frivola

«Sei la regina del lieto fine. Il lieto fine ha comprato questa casa. Siamo molto grati al lieto fine». Lo dice Nick, marito di Eve, che è il terzo alter ego di Madeleine Townley sposata Wickham, Madeleine che oggi avrebbe compiuto cinquantasei anni ma è morta l’altroieri.

La prima identità alternativa è quella di Sophie Kinsella, il nome con cui decide di smetterla coi romanzi storici firmati col suo vero nome e scrivere di ciò che conosce: il fatto che ha l’estratto conto della carta di credito pieno di acquisti fatti invece di scrivere romanzi storici.

La seconda è quella di Becky Bloomwood, la protagonista di “I love shopping”, che ha reso Sophie Kinsella ricca e famosa e le ha anche permesso di usare i suoi trascorsi di giornalista finanziaria.

La terza è Eve Monroe, la protagonista di “Cosa si prova” (Mondadori, come tutti i libri della Kinsella), uscito poco più di due mesi fa: come Madeleine, Eve è una scrittrice che scrive di una tizia cui piace comprarsi vestiti; come Madeleine, Eve ha cinque figli e un marito amatissimo; come a Madeleine, anche a Eve diagnosticano un cancro al cervello. Il lieto fine è questione di dove tagli, e “Cosa si prova”, uscito tre anni dopo la diagnosi e un anno e mezzo dopo aver reso pubblica la notizia, finisce che Eve è ancora viva, e chissà, magari accade un miracolo. A cosa serve, la letteratura, se non a illuderci con spasmodici trucchi di radianza.

Sophie Kinsella era un’ottima scrittrice in un campionato, quello degli inglesi spiritosi, assai affollato. Faceva quel che le donne si sono messe a fare negli ultimi trent’anni, dopo che Nick Hornby aveva illuminato la via rendendo chiaro che il pubblico quello voleva: che gli scrittori dicessero a chi legge che non solo le sue stronzate sono normali e comuni e nulla di cui vergognarsi, ma che se ne può ridere restandoci affezionati. Erano i primi segni che cercavamo uno specchio e non una porta, ma siccome erano qualitativamente meglio della gente con la telecamera del telefono accesa in faccia non abbiamo pensato fosse l’inizio del declino della nostra qualità di pubblico.

Hornby aveva fatto quell’operazione lì per i maschi con il calcio e le canzonette e le classifiche (oggi si direbbe che le aveva normalizzate, ma all’epoca non eravamo abbastanza analfabeti da avere certi tic lessicali); Helen Fielding l’aveva fatto per le femmine, relativamente alle diete e agli amorazzi non corrisposti; Sophie Kinsella lo fece per il vivere al di sopra delle nostre possibilità.

Helen Fielding è più brava, e Jilly Cooper era più brava ancora (ve l’ho detto che in Inghilterra far ridere scrivendo non è attività amatoriale), ma Sophie Kinsella era comunque bravissima, e soprattutto: parlava esattamente a noi.

Il primo “I love shopping” uscì che avevo ventott’anni: di cos’altro ti deve importare, a ventott’anni, se non di comprare più vestiti di quanti tu possa permettertene, di non aprire gli estratti conto della carta di credito illudendoti che se non li apri non possano diventare un problema, di schivare le telefonate del direttore della banca con scuse fantasiose? Oggi, che siamo appunto analfabeti, diremmo che sono problemi da privilegiate. Certo che lo sono. Se sei una ventottenne sana che vive nell’occidente satollo di questi anni, hai solo problemi da privilegiata.

«Sono stata talmente e incredibilmente fortunata che mi sembra quasi troppo per una persona sola. Adesso aspetto che arrivi la sfortuna!»: lo dice Eve a un’intervistatrice nella prima parte di “Cosa si prova”, quella in cui è ancora un’autrice frivola di successo, non una cui tocca parlare del suo cancro al cervello.

Poiché Madeleine in arte Sophie scriveva storie da ridere, non invettive dolenti sui mali del mondo, la sua famiglia non avrà inediti da assemblare. Non serviranno per arrotondare: ha avuto, tra le altre, la fortuna di lavorare negli ultimi anni in cui le storie da ridere non venivano accolte da gente che sobbolliva «io non arrivo a fine mese e tu pensi allo shopping, vergognaaaa». Sapevamo che distrarci e ridere e pensare alle cazzate sono cose preziose.

Nel dualismo del “Tempo delle mele”, quello tra il padre che vuole trasferirsi a Lione per lavorare in un’équipe di scienziati, e la madre che vuole stare a Parigi a fare i fumetti, negli anni di “I love shopping” Parigi aveva ancora una chance. Adesso, la madre che dice al padre che lui pensa il suo lavoro sia più importante perché salva l’umanità, «ma io l’umanità la faccio ridere», adesso quella madre lì verrebbe trattata come una scema, non come un pezzo indispensabile del complesso meccanismo che serve per attraversare le giornate senza che tutto sia terrore miseria e morte.

«Tutti quelli che hanno il cancro scrivono un articolo. Si ammalano di cancro e poi scrivono un articolo in cui dicono: “Questi sono stati i primi sintomi” per avvertire gli altri. Guarda, qui ce n’è uno intitolato: I primi cinque segnali che annunciano un cancro letale al cervello. Dovrei scriverne uno anch’io?»: lo chiede Eve al marito della finzione, non so se anche Madeleine l’avesse chiesto al marito della realtà.

A un’intervista che le fece il Times dopo che aveva annunciato la sua malattia, si presentò indossando degli stivali a mezza coscia. L’intervistatrice li commentò e lei rispose: non so quanto tempo mi resta su questa Terra e per poterli indossare. Questo è il punto in cui ci si può indignare: lasci cinque orfani e pensi agli stivaliiii. Che umanità pallosa che siamo diventati, avremo sempre più solo scrittrici dolenti non per vocazione espressiva ma perché terrorizzate dai moralizzatori da social.

Ho ritrovato una delle interviste che le feci, era il 2009, c’era appena stato Lehman Brothers, ma ormai il film da “I love shopping” era fatto, ci avevano messo moltissimo tempo e non si sarebbero fatti fermare dalla recessione. Le dicevo ma come, persino da “Sex and the city” stanno togliendo le marche, sono tutti contriti e attenti a non parlare di lusso e a non ostentare, e voi fate comprare roba costosa a Becky Bloomwood. Era una donna molto spiritosa, rispose: e cosa resta, in “Sex and the city”, se levi le marche?

Anche perché, ma questo allora non poteva immaginarlo lei e neppure oggi voglio immaginarlo io, un giorno muori, assai prima di quanto avessi previsto, e ti penti di non essere stata frivola. Ti penti di ogni stivale non indossato, di ogni addebito della carta di credito non temuto, di ogni scemenza da cui non ti sei lasciata distrarre finché la tua vita è stata così priva di problemi veri da poterti illudere che le scemenze fossero serie.

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