Il vento di Jon Fosse e di Marco Bonadei, teatro dell’intensità

Milano, 29 mag. (askanews) – Il teatro è una delle forme dell’intensità, che nasce dal confronto tra lo spazio simbolico del palco e quella che riteniamo essere la “realtà” al di là di esso. Il teatro è un luogo di soglia, un punto di frattura, dove i due mondi collidono, se si è fortunati, con esiti che diventano “larger than Life”, come avviene sempre con l’arte, quando è buona. Le soglie sono uno spazio nel quale il lavoro di Marco Bonadei, regista e attore che si cala nelle logiche del teatro contemporaneo con tutto il suo corpo, si trova a proprio agio. Si ha quasi la sensazione che tutto il suo teatro possa esistere solo su una soglia, più difficile questa è, più ne beneficia il lavoro. Succede lo stesso con il dramma “Io sono il vento” del Nobel Jon Fosse, che Bonadei porta in scena, sul palco con Angelo Di Genio, al teatro Elfo Puccini di Milano. Uno spettacolo che è pura intensità, che è un ragionamento sulla stessa forma che può assumere il palcoscenico, in questo caso una grande vasca di acqua bianca, che attraversa le dimensioni dell’umano – la vita, il dolore, la morte – senza fare sconti, ma, e Fosse evidentemente ha guardato alla lezione di Beckett, anche con tutta la disperata leggerezza di sguardo che deriva dalla consapevolezza che lo cose succedono “perché succedono”. E qui non c’entra l’assurdo o la tautologia, qui è semplicemente la realtà delle dinamiche che presiedono a tutte le nostre azioni, che possono avvenire solo nel modo in cui avvengono, il resto sono meri esercizi di stile o ipotesi di scuola. Kundera ci vedeva la sua insostenibile leggerezza, Fosse, probabilmente, un senso pacato di inevitabilità. (Potremmo perfino dire il senso del Tempo e della Storia, se volessimo essere ridondanti).
Due uomini, i loro dialoghi, una barca di cui parlano a lungo, ma che non si vede mai. Quello che si vede è l’acqua che li circonda, che in un certo senso li possiede, che rappresenta una scenografia potentemente visuale e generativa – gli effetti scenici spesso sono affidati al riflesso delle luci sull’acqua – ma che è anche la testimonianza della dimensione di perdita universale che accompagna i protagonisti, per quanto il loro cinismo provi a minimizzare tutto questo con una risata o un urlo. In fondo per Fosse (e per Beckett prima di lui) tutto è già perduto, tutto è stato sempre perduto, anche quando apparentemente lo possedevamo. In questo vuoto, in questa voragine, che è la vita sul pianeta terra, i due uomini in scena provano a essere, anche se per poco, ancora umani. A volte riescono, a volte no: Bonadei e Di Genio sono bravissimi anche nel dare corporeità a un momento di totale sospensione, che però al pubblico appare quasi come una speranza sopra il grande buio del loro (e nostro) essere dispersi in un mare che non possiamo conoscere e che forse è già il mare dell’addio, come se lo intravvedessimo dall’astronave in un’opera come “Solaris”.
Sulla soglia della morte, sulla soglia dell’esperienza, quella con la E maiuscola, i due attori portano la storia – difficile ed estremamente introspettiva in molte parti – a un livello astratto eppure presente, misterioso, ma familiare, spaventoso a volte, ma la paura si affievolisce quando si sente la portata umana di ogni singola parola e di ogni singolo gesto scenico. Quando si sente il teatro, il teatro profondo, che può essere brutale, ma è comunque un porto di scambio, ci si avvicina al nocciolo dell’esistenza, almeno per quanto la drammaturgia, la scrittura e l’arte ce lo permettono. Anche se il vento sferza, anche se la cerata che indossiamo non può difenderci da noi stessi e, men che meno, dal destino, anche se tutto appare, alla fine, svanito. Noi siamo ancora qui. Davanti a un palco acqueo che potrebbe essere il fiume Lete o il mare Oceano nel quale affonda la barca dell’Ulisse di Dante (“Considerate la vostra semenza…”). Davanti al teatro di noi stessi, pronipoti del Karl Rossmann americano di Kafka. Siamo ancora qui, nonostante tutto.
E dall’Elfo Puccini si esce, certamente toccati e scossi, certamente vulnerabili, forse confusi. Ma anche pensando a una parola: a un “grazie”, come viene detto nelle poesie di Mariangela Gualtieri. Un “grazie” che è carico di molti dolori e di molti sguardi lucidi, ma che è anche vivo, consapevole, forse perfino ribelle. (Leonardo Merlini)
Foto: Teatro Elfo Puccini
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