Immaginazione, il superpotere di vedere quello che ancora non è

Dicembre 5, 2025 - 10:00
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Immaginazione, il superpotere di vedere quello che ancora non è

L’immaginazione è vedere ciò che non c’è. Non c’è mai stato, non c’è più, non ci sarà mai, non importa, fatto sta che è letteralmente vedere l’invisibile. Questo superpotere, che ha solo l’uomo, sembra che sia un’invenzione dei bambini: poiché siamo l’unica specie che sviluppa due terzi del cervello dopo la nascita, siamo gli unici ad avere un’infanzia protetta e prolungata nella quale – dice la ricerca archeologica – il piccolo di homo sapiens ebbe tempo, giocando, provando, sperimentando, di sviluppare narrazione e immaginazione.

VITA magazine di novembre è dedicato al volontariato e a ciò che spinge 4,7 milioni di italiani a spendersi per gli altri. Che cosa muove oggi il nostro impegno? Quali sono i nuovi motori del volontariato? Accanto al racconto, abbiamo sfidato dieci firme in un’ambiziosa riscrittura del bellissimo e sempre attuale “Noi ci impegniamo” di don Primo Mazzolari. Dieci parole da cui ripartire, nella Giornata internazionale del Volontariato. Il sociologo Stefano Laffi ha scelto la parola immaginazioneSe hai un abbonamento leggi subito Volontario, perché lo fai?  e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.

L’immaginazione è un vedere all’antitesi del vedere stesso: si tratta di immagini in entrambi i casi, ma per l’immaginazione le immagini vengono da dentro, non da fuori. È un esercizio potentissimo, se paragonato alla visione, perché attivo e non passivo, capace di smentire l’esistente e creare mondi. Pensiamoci, l’uomo non si è mai fatto bastare quel che trovava: se gli fosse bastata la vita per come era non avrebbe creato utensili, coltivato campi, fabbricato cose né costruito tombe per i propri morti. Se l’immaginazione è un esercizio proiettivo sul mondo trasformato in display, se rilascia vissuti, pensieri, fantasie, essa intrattiene un rapporto particolare con la realtà. Da un lato è evidente che è il nostro modo di abitare la realtà e renderla a nostra misura: nel mio lavoro di accompagnare i gruppi (soprattutto di giovani) all’immaginazione per progettare insieme, spesso parto dalle foto delle loro stanze, che di solito hanno tracce della loro immaginazione realizzata. Quindi prendo quegli elementi e li mescolo ad altri, li proietto nello spazio pubblico, e ottengo per reazione chimica il volontariato. Che è innanzitutto un esercizio di immaginazione: “il mondo non com’è, ma come dovrebbe essere, come vorrei che fosse”. Tutti lo fanno nel proprio microcosmo, ma qui si tratta di guadagnare l’esterno, di abilitarne l’esercizio fuori da quella stanza. Provate a scrivere “non è giusto che…” sulla lavagna in una classe, chiedete di completare quella frase e avrete 25 potenziali volontari, ciascuno ingaggiato a correggere l’ingiustizia che avverte di più. 

Impotenza è la cifra del nostro tempo, ma in Italia ci sono 4,7 milioni di persone che si spendono per gli altri.
Qual è il senso di questo impegno? Le risposte all’interno del magazine ‘‘Volontario, perché lo fai?

Volontari poi lo diventano tutti e tutte? Certamente no. Perché? Perché non siamo tutti ingaggiati a migliorare le cose? Capiamolo insieme. L’immaginazione è democratica, tutti ne sono dotati, ma la usiamo diversamente: non si può dire – come spesso invece si fa – che una persona non ha immaginazione, si può però dire che una persona non la usa. Poiché l’immaginazione si nutre dall’interno, è chiaro che vite inaridite da esperienze povere, da deprivazione e da bisogni primari faticosamente soddisfatti, hanno poco da proiettare: sono archivi poveri di immagini interiori. Fa male dirlo, ma sono i ricchi a sognare: i poveri per lo più sono intenti a sopravvivere. E chi organizza il volontariato sa quanto sia difficile avere a fianco chi è più in difficoltà. Ma non è solo questo, c’entra anche l’esterno: se attorno a te le cose non cambiano mai, se non vedi mai vite che si riscattano, se il mondo non ti appare il display di nulla ed è sempre lo stesso film. Per questo serve raccontare e testimoniare cambiamenti, vite che curvano, comunità che reagiscono, destini capovolti: solo così si innescherà l’immaginazione, perché allora ti dirai che sì, un altro mondo è possibile.

L’immaginazione di cui parlo è un gesto politico: nel mio lavoro la convoco nel mondo, le chiedo una mano a migliorarlo con gesti e azioni come quelli del volontariato, insomma è il contrario dell’evasione, di pratiche consolatorie in proprio, di mondi fantastici Stefano Laffi, sociologo

C’è almeno un altro dato però che dobbiamo considerare, per spiegarci il senso di apatia e rassegnazione che spesso notiamo in giro, poco compatibile con questa apparente onnipotenza di avere il dono di disegnare le cose come si vorrebbero. L’immaginazione di cui parlo è un gesto politico: nel mio lavoro la convoco nel mondo, le chiedo una mano a migliorarlo con gesti e azioni come quelli del volontariato, insomma è il contrario dell’evasione, di pratiche consolatorie in proprio, di mondi fantastici. Ma il mondo a sua volta produce immagini e lo fa sempre di più: proprio perché è un esercizio di libertà individuale ed è l’incipit di un gesto che modifica la realtà, chi della realtà rivendica il diritto o il potere del controllo l’immaginazione la teme e prova a colonizzarla. Come? Con l’immaginario, lo sfondo narrativo in cui ci muoviamo, con le immagini che politica, economia e cultura producono nel presente. Se tutto attorno a noi parla di crimine e sicurezza, se questo è il tema di notiziari, serie tv, dispositivi tecnologici, proposte di legge, la tua immaginazione farà fatica a produrre visioni di amicizia, solidarietà, piacere di incontri casuali. Questo è un paradosso che completa il nostro quadro sul rapporto con la realtà: più immagini di sé la realtà produce – ovvero più siamo intenti a riceverne dai nostri dispositivi – e meno immaginazione avremo.

La saturazione è una censura dell’immaginazione e dobbiamo fare molta attenzione a non scambiarla per informazione e conoscenza delle cose. Più immagini di sé la realtà produce – ovvero più siamo intenti a riceverne dai nostri dispositivi – e meno immaginazione avremo Stefano Laffi, sociologo

La saturazione è una censura dell’immaginazione e dobbiamo fare molta attenzione a non scambiarla per informazione e conoscenza delle cose. E visto che il mio mestiere è proprio coltivare l’immaginazione per mobilitare le persone, ecco una tecnica per svelare e superare questa pericolosa dialettica fra immaginario e immaginazione in cui siamo immersi: provate a chiedere a un gruppo di descrivere nel dettaglio una scena che voi avrete appena abbozzato come “una giovane donna passeggia per strada da sola”.

Le dieci firme che su VITA hanno scritto dei nuovi “motori” del volontariato

Se le rappresentazioni descrivono una situazione pericolosa o minacciosa, se quella donna viene descritta con in mano un telefono, in borsa uno spray al peperoncino o impegnata in una videochiamata per sentirsi più sicura, ecco quello è l’immaginario in cui siamo, lo sfondo narrativo di paura che subiamo. Quell’immaginario vi fornisce anche una soluzione, fatta di telecamere e sorveglianza: ma non siete voi a immaginarli. A quel punto provate ad attivare l’immaginazione, abilitate il gruppo a disegnare diversamente la scena, a rompere quell’incantesimo. Non basterebbe che quella donna salutasse serenamente chi incontra? Perché sappiamo che il primo indicatore di sicurezza personale è il numero di persone che saluti quando esci di casa. Ecco, attivandoci per promuovere vicinato e comunità di quartiere cambieremo la scena, innescati – questa volta sì – dalla nostra immaginazione.

Stefano Laffi (nella foto in apertura) è sociologo, autore di “Immagina – Antidoti con la rassegnazione”, Feltrinelli 2025

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