Desiderio: fare cose insieme, non fare qualcosa per qualcuno

Dicembre 5, 2025 - 10:00
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Desiderio: fare cose insieme, non fare qualcosa per qualcuno

«Non si tratta di mancanza di mezzi, quanto piuttosto di mancanza di desiderio, il vero motore del cambiamento»: il desiderio sta al centro delle riflessioni più recenti di Paolo Venturi, docente di imprenditorialità e innovazione sociale presso l’Università di Bologna, direttore di Aiccon e coautore con Flaviano Zandonai di Spazio al desiderio. Il potere delle aspirazioni per generare innovazione sociale (Egea, 2024). Sotto la lente c’è l’inerzia diffusa che si riscontra nella società di oggi. «In assenza di desideri, e di consapevolezza di cosa desiderare, anche le risorse più avanzate risultano inefficaci, e alla società non resta che orientarsi ai bisogni, trascurando le aspirazioni. Eppure, il desiderio non è un lusso da aggiungere una volta soddisfatti i bisogni primari: il desiderio è una necessità intrinseca, essenziale per la crescita individuale e collettiva».

Impotenza è la cifra del nostro tempo, ma in Italia ci sono 4,7 milioni di persone che si spendono per gli altri.
Qual è il senso di questo impegno? Le risposte all’interno del magazine ‘‘Volontario, perché lo fai?

VITA magazine di novembre è dedicato al volontariato e a ciò che spinge 4,7 milioni di italiani a spendersi per gli altri. Che cosa muove oggi il nostro impegno? Quali sono i nuovi motori del volontariato? Accanto al racconto, abbiamo sfidato dieci firme in un’ambiziosa riscrittura del bellissimo e sempre attuale “Noi ci impegniamo” di don Primo Mazzolari. Dieci parole da cui ripartire, nella Giornata internazionale del Volontariato. Il direttore di Aiccon Paolo Venturi ha scelto la parola desiderioSe hai un abbonamento leggi subito Volontario, perché lo fai?  e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.

Il desiderio come necessità intrinseca vale anche per il volontariato? Anche questo mondo vive una crisi del desiderio e da lì può ripartire? 

La prima cosa che mi viene da dire parlando di volontariato, citando Pavese, è che “lavorare stanca”… ma manda a letto felici: lo dico perché ho sempre in mente l’immagine delle mie due figlie che, nel periodo dell’alluvione in Romagna, tornavano a casa esauste ma felici. È una battuta, ma lì dentro ci sono due temi che hanno a che fare con il dna del volontariato. Il primo è che l’azione gratuita nasce sempre all’interno di un’esperienza in cui uno si sente attratto in quanto grato. La prima cosa che ci muove è la gratitudine e l’essenza del volontariato non è l’essere gratis ma la gratuità. La seconda è la percezione – magari vaga, soprattutto all’inizio – che ciò che stai facendo ha senso: il “fare” del volontariato non è un to do for, ma è un to make sense. Se togliamo al volontariato questo dna e guardiamo soltanto la prestazione, lo desertifichiamo: lo riduciamo a un flusso di prestazioni fatte da soggetti non pagati. Invece è un movimento che nasce da motivazioni e da moventi e che non può essere ridotto al “fare cose”, nemmeno se fatte maledettamente bene. 

Le dieci firme che su VITA hanno scritto dei nuovi “motori” del volontariato

Cosa c’è in più, oltre il “fare”? Qual è il desiderio che muove il volontario?

Nelle istituzioni a movente ideale, l’esito nasce dalla corrispondenza fra ciò che desideri e ciò che fai. Vaclav Havel, ne Il potere dei senza potere, diceva che ottimismo è fare qualcosa con la certezza che quella cosa andrà bene, speranza è fare quella cosa con la certezza che ha senso. È questo che ti muove, anche se sai che la tua azione non avrà un esito positivo né oggi, né domani. Il movente del volontariato non è dare risposta al bisogno dell’altro, ma il fatto che io, essendo struttura di desiderio, trovo nella relazione con l’altro la modalità più adeguata per prendermi cura anche di me stesso e della mia felicità. Il tema è quello della reciprocità, perché il dono è reciprocità. Noi invece troppo spesso abbiamo separato il soggetto dall’oggetto, e questo ha indebolito il movente. 

Di solito pensiamo che il volontario agisca per migliorare le cose, tant’è che vediamo che l’adesione cresce là dove l’azione dei volontari ha un impatto immediato, concreto. Ora lei invece mette l’accento sul cambiamento del soggetto. Che dialettica c’è tra le due cose?

Per cambiare il mondo devi partire dal tuo cambiamento. Uno dei limiti del nostro cambiare le cose è fare analisi su analisi, ma senza mettere in moto un cambiamento. La storia del non profit invece che cos’è? È prima di tutto l’esperienza di “minoranze profetiche”: una minoranza profetica non è un’élite, né una nicchia, sono persone cambiate nella loro visione, che hanno la consapevolezza che il cambiamento parte sempre dal micro. Il cambiamento nasce dal soggetto, si misura nel contesto ed è orientato a generare valore. Ecco da dove dobbiamo ripartire.

Un tempo utilitarismo e altruismo venivano contrapposti ma oggi questi due elementi convivono: la mia utilità (il mio “bene”) si realizza nel fare qualcosa per qualcuno, insieme ad altri Paolo Venturi, docente di imprenditorialità e innovazione sociale all’Università di Bologna

Anche perché sul piano dell’efficacia oggi dobbiamo evidentemente fare i conti più con l’impotenza che con l’impatto… 

L’impatto conta, ma non tanto come metrica quando come elemento trasformativo. Il “fare” del volontario genera sia il cambiamento del soggetto che lo fa sia dei beni relazionali, che alimentano la reciprocità: chi ha beneficiato dell’azione volontaria e gratuita non resta fermo ma ti reciproca, ti concede amicizia, matura fiducia, matura speranza. Questa alchimia non è un vago sentimentalismo, è un processo che genera una serie di “intangible” che fanno il “tangible” della vita. Oggi le ricerche sul dono dicono che all’altruismo puro si sta sostituendo un certo utilitarismo, dove l’utilità è il fatto che la relazione con l’altro viene avvertita come una modalità adeguata per essere io felice. Un tempo utilitarismo e altruismo venivano contrapposti – in economia utilitarismo significa massimizzare il proprio interesse a prescindere dagli altri e altruismo significa massimizzare l’interesse e il bisogno dell’altro, a prescindere da sé – ma oggi questi due elementi convivono: la mia utilità (il mio “bene”) si realizza nel fare qualcosa per qualcuno, insieme ad altri. 

Cosa consegue dal fatto che oggi non si fa volontariato solo per dare risposta a un bisogno o per essere utili a qualcuno, ma bisogna che quell’azione abbia anche un impatto su di me che la faccio?

È la ragione per cui nel volontariato stanno crescendo gli ambiti dove c’è orientamento alla comunità e al territorio, oppure la cultura: sono contesti in cui si fa esattamente questa esperienza, in un’epoca in cui il grande desiderio non è fare cose per qualcuno ma fare cose insieme a qualcuno. Le persone oggi fanno molte esperienze di comunanza, ma nessuna di comunità: siamo un po’ tutti “alone togheter”, come dice Sherry Turkle… Un altro aspetto che nel volontariato è tornato centrale è la dimensione del luogo, poiché è intorno allo spazio che tutto questo accade. Le organizzazioni quindi devono lavorare molto su questo: non solo sulle “sedi”, ma sui luoghi, cioè spazi dotati di significato, dove può accadere la reciprocità.

Come si nutre il desiderio?

È chiaro che il desiderio non si può imporlo, però si possono costruire condizioni che lo mortificano o che, al contrario, lo alimentano. Allora la domanda è: quali ambienti creiamo, noi, per tenere vivo il desiderio? Perché tenere vivo il desiderio non è una cosa retorica, è qualcosa che ha bisogno di manutenzione concreta. Un elemento importante è uscire dalla “sindrome da basse aspettative” e qui mi viene in mente un articolo bellissimo di Pier Paolo Pasolini, che quando parla a Gennariello diceva che i «destinati a morire» ti insegnano la rinuncia, la retorica della bruttezza e «una certa obbligatoria tendenza all’infelicità». Pure noi abbiamo una tendenza all’infelicità e una sindrome da basse aspettative che senza dubbio mortifica il desiderio.

Le organizzazioni quindi devono lavorare molto su questo: non solo sulle “sedi”, ma sui luoghi, cioè spazi dotati di significato, dove può accadere la reciprocità. Paolo Venturi, docente di imprenditorialità e innovazione sociale all’Università di Bologna

Le organizzazioni come possono fare “manutenzione del desiderio”?

Non con la mappa dei bisogni dei volontari. Chi partecipa a un’organizzazione chiede di poter riconoscere che in quell’organizzazione il movente è vivo: le organizzazioni devono sperimentare, dare potere alle aspirazioni e alle motivazioni di soggetti nuovi e diversi. Per una certa generazione, per esempio, la partecipazione è passata dalle riunioni: per i giovani volontari non è più così. Non voglio banalizzare, ma un movente nuovo ha bisogno anche di un contenitore nuovo. Le organizzazioni non profit devono essere organizzazioni aperte, praticare in maniera massiva l’open innovation, lavorare sul contesto: respirare con altri, costruire azioni con altri. Peter Drucker dice che, a meno di accontentarci di definirle a partire da ciò che non sono, la definizione più adeguata delle organizzazioni non profit è «organizzazioni per il cambiamento umano». Questo è il tema. 

Tornando a quell’impotenza che è un po’ il nostro Zeitgeist, cosa dire?

Che l’impotenza può esistere rispetto all’esito, ma non rispetto al senso. E la misura dell’azione volontaria non è l’esito, ma il senso. E poi ricordare che l’incapacità di cambiare spesso deriva dall’incapacità di assumere una diversa prospettiva sulle cose: ecco perché le organizzazioni si devono aprire e perché l’autoreferenzialità è mortifera. Tornando a Gennariello, “divertirsi” è cruciale: divertere, cioè volgere lo sguardo altrove. 

In apertura, Paolo Venturi. La fotografia è di JM Baigorria

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