Necessità, la rivoluzione di essere «giorno di raccolta» per chi ha bisogno

Dicembre 5, 2025 - 10:00
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Necessità, la rivoluzione di essere «giorno di raccolta» per chi ha bisogno

«Giorno di raccolta quando il raccolto è buono»: nella regione del Karamojong in Uganda, è questo il nome che danno a chi si è speso per la comunità. Si dice Rodweny Labaaramoi e quelle due parole Gabriele Corsi se le è tatuate sull’avambraccio destro: «Così la mattina, quando mi lavo la faccia, leggo la scritta e mi ricordo chi sono». Chi è Gabriele Corsi? Un comico e un attore, uno dei membri del Trio Medusa, un conduttore tv e radiofonico e l’autore di un libro di grande successo – Che bella giornata, speriamo che non piova (Cairo, 2024) – in cui racconta la malattia neurodegenerativa del padre. Ma è anche un donatore di sangue, un volontario in organizzazioni piccole e grandi, un ambasciatore di Unicef e di Cesvi e un promotore del messaggio della donazione di sangue anche per Avis in momenti difficili come la pandemia. È un uomo che cerca di onorare in ogni giornata quel nome che gli è stato assegnato in Africa. «Perché lo fai?, mi chiedono in tanti. In fondo non serve andare fino in Uganda, potresti aiutarli anche da qui… Io rispondo sempre ponendo un’altra domanda: “E tu, invece, che fai?”». È forse per questo che, quando pensa al volontariato, gli viene in mente un’unica parola: «Necessità».

Impotenza è la cifra del nostro tempo, ma in Italia ci sono 4,7 milioni di persone che si spendono per gli altri.
Qual è il senso di questo impegno? Le risposte all’interno del magazine ‘‘Volontario, perché lo fai?


VITA magazine di novembre è dedicato al volontariato e a ciò che spinge 4,7 milioni di italiani a spendersi per gli altri. Che cosa muove oggi il nostro impegno? Quali sono i nuovi motori del volontariato? Accanto al racconto, abbiamo sfidato dieci firme in un’ambiziosa riscrittura del bellissimo e sempre attuale “Noi ci impegniamo” di don Primo Mazzolari. Dieci parole da cui ripartire, nella Giornata internazionale del Volontariato. L’attore Gabriele Corsi ha scelto la parola necessitàSe hai un abbonamento leggi subito Volontario, perché lo fai?  e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.

Da dove arriva un’attitudine così spiccata per il volontariato?

La definirei una specie di pulsione, è una tensione che mi muove da sempre e che nasce dalla mia famiglia. Mio papà mi ha insegnato che, di fronte a qualcuno in difficoltà, non ci si volta dall’altra parte: l’ho visto salire in casa senza farsi notare e poi scendere di nuovo con un pacco di vestiti da donare a qualcuno. Mio nonno era un fabbro, non sapeva leggere e scrivere, aveva una fornace nella periferia di Roma: durante la Seconda guerra mondiale ha nascosto nella sua bottega due famiglie ebree. Il volontariato è quella cosa che s’impara con l’esempio, osservando quello che si vive in casa. Io l’ho fatto da giovanissimo in parrocchia come animatore e nel gruppo missionario che inviava materiali in Africa, poi con un’associazione che s’impegna per ragazzi con sindrome di Down e non ho ancora smesso. Perché nel nostro Paese senza il Terzo settore non esisterebbe una rete sociale abbastanza forte da sostenere i bisogni di tutti. 

Qual è secondo lei il motore che oggi spinge le persone ad attivarsi per il bene comune?  

Io penso che non si tratti di una spinta dall’esterno, credo che sia una necessità intrinseca. L’anno scorso sono stato in Uganda, un luogo in cui le donne tengono sulle spalle il mondo: lì ho conosciuto Rebecca, una persona incredibile che mi ha mostrato le infrastrutture e i servizi che sono stati costruiti grazie alle donazioni negli ultimi due anni. Ecco, a me non basta immaginarlo il cambiamento: io lo voglio vedere con i miei occhi e sentirlo nelle parole di Rebecca che lo vive ogni giorno. Voglio partecipare ed essere parte di questa rivoluzione. 

Il volontariato è rivoluzionario?

Sì, per me lo è. Significa uscire di casa, infilarsi le scarpe e darsi da fare. “Perché spendi il tuo sabato per andare a vendere gli ulivi con Unicef?”, mi chiedono. “Serve davvero?”. Io penso che serva. Ma la vera domanda è: tu che critichi e guardi con scetticismo ai gesti di solidarietà, che cosa fai? Dell’amore di chi ti sei circondato? Io me lo chiedo ogni giorno che cosa posso fare per gli altri. Non c’è alcun merito nell’essere nati a Kampala, a Roma, a New York o Palermo: non abbiamo scuse per non fare qualcosa per colmare il divario. Sono convinto che l’ultima immagine che avremo in mente prima di lasciare questa terra non riguarderà il lavoro che abbiamo fatto, ma le mani che abbiamo teso. Io faccio un mestiere bellissimo, ma se non vado in radio o in tv non cambia nulla nella vita delle persone che mi seguono. Con la mia popolarità, però, posso cambiare qualcosa. È accaduto nel Karamojong, una regione dell’Uganda, dove in segno di ringraziamento, con una cerimonia riservata agli anziani della comunità, mi hanno dato un nome che è pura poesia: il giorno di raccolta quando il raccolto è buono. A questo dobbiamo tendere: quando riusciamo ad essere giorno di raccolta di un raccolto buono, vuol dire che il nostro seme ha portato frutto.

Gabriele Corsi ha tatuato sull’avambraccio destro il nome che la comunità della regione del Karamojong in Uganda gli ha dato. Significa “Giorno di raccolto quando i raccolto è buono” (fotografia fornita dall’intervistato)

In Che bella giornata, speriamo che non piova, intreccia il commovente racconto della malattia di suo padre con l’esperienza che lei ha fatto durante il servizio civile in una struttura per malati psichiatrici. Perché ha voluto raccontarla?

Spesso il mio impegno nasce da un’esperienza personale. Sono un donatore di sangue e un volontario Ail da quando avevo 18 anni, perché quando facevo teatro in parrocchia avevo una carissima amica, Vanessa, che era malata di leucemia. Lei non c’è più, ma ogni volta che dono il sangue penso ancora a lei, all’importanza che la sua vita ha avuto nella mia. La malattia di mio padre è stata l’occasione per ricordare il mio anno da obiettore di coscienza in un luogo in cui sono tornato più volte e torno tuttora. Le fragilità hanno sfumature e connotazioni diverse, ognuno di noi è vulnerabile a suo modo: siamo vittime del mito del superuomo o della superdonna, ma non c’è nulla di sbagliato nel concedersi un pianto, nel cadere e nel chiedere aiuto. Chi ha deciso che dobbiamo essere monolitici nei sentimenti e impermeabili nelle reazioni? La fragilità può essere un meraviglioso innesco. Nel mio caso, ha dato vita a un libro, il cui ricavato è interamente devoluto a Unicef e all’associazione Antea.

Perché il volontariato è necessità?

Necessità per me è giustizia perché non c’è felicità né pace senza uguaglianza. Finché continueremo a partire da blocchi differenti, la corsa sarà falsata allo start, gli ultimi resteranno ultimi e i primi saranno irraggiungibili. Necessità significa intervenire sulle disparità, dare a tutti la stessa disponibilità di accesso alla cultura, alla mobilità, ai servizi, all’autonomia. Necessità è una questione di civiltà. Se metto in fila le cose belle a cui ho potuto dare il mio contributo, sento che si accende una piccola luce. E io ne ho bisogno in mezzo a tutto questo buio.

In apertura, Gabriele Corsi (fotografia di Leonardo Corsi)

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Redazione Redazione Eventi e News