Inciampi, omissioni e contraddizioni del governo sul caso Almasri

All’orizzonte di quello che può definirsi l’Almastri-gate si profila l’ennesimo capitolo della saga dell’atto dovuto. Il malcapitato procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, un moderato prudente e non avventuroso, all’inizio dell’anno è stato bersagliato dai gazzettieri di regime per aver osato iscrivere sul registro degli indagati Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, ipotizzando a loro carico i reati di favoreggiamento e omissione di atti d’ufficio per aver agevolato la riconsegna alla Libia del noto torturatore Almasri, di cui la Corte penale internazionale aveva ordinato l’arresto, eseguito in Italia ad iniziativa delle forze di polizia.
Giuristi di lungo corso filogovernativi (ce ne sono a iosa e di insospettabili) e volenterosi avventizi hanno versato fiumi d’inchiostro per sostenere che di obbligatorio non ci fosse nulla e che Lo Voi avrebbe dovuto cestinare l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti.
È bene ricordare che i reati in questione non abbisognano di una querela di parte, ma sono perseguibili d’ufficio per il solo fatto che una notizia di reato concreta pervenga all’organo della pubblica accusa. I fatti che avevano portato all’ignominia della liberazione del criminale libico erano sotto gli occhi di tutti e decifrabili giuridicamente, come questo giornale scrisse all’epoca anticipando l’esito dell’indagine e altri disastri assortiti del governo Meloni come gli hub albanesi (ma si sa che la narrazione più commestibile e facile da spiegare è il complotto dei giudici, perché non richiede nozioni culturali).
Non si tratta di essere profeti, ma di avere cognizioni basiche di diritto, una dotazione di cui non è immaginabile che il governo non goda, per cui, più probabilmente, secondo indirizzo trumpian-sovranista, semplicemente crede di poterne fare a meno.
Al dunque, la decisione del procuratore di Roma, nonostante i giuristi filo-Meloni, si è rivelata corretta, giacché il tribunale dei ministri, organo ibrido munito di potere di giurisdizione e di indagine (sul modello del vecchio giudice istruttore, come lo fu Giovanni Falcone), ha ritenuto attendibili e sufficienti gli elementi di prova a carico del sottosegretario e dei due ministri proprio per i reati ipotizzati da Lo Voi, mentre ha archiviato la presidente del Consiglio, forse nella speranza di non esasperare i toni politici. L’ingrata e furba Meloni, invece, ha finto di indignarsi per poterla buttare in caciara a uso dei suoi seguaci trombettieri, e distogliere l’attenzione dall’imbarazzante pochade istituzionale che le pagine redatte puntigliosamente e con tanto di documentazione dai giudici hanno squadernato.
La vicenda Almasri non è altro che l’ennesimo scaricabarile tra due organi dello Stato, il ministero della Giustizia e la procura generale di Roma, che si sono palleggiati lo scottante dossier della Corte penale sperando in una qualsiasi decisione, purché assunta dall’altra parte.
Almasri era stato arrestato dalla polizia di Torino su segnalazione dell’Interpol. Il fermo cautelare, come ricostruito dalla richiesta di autorizzazione, aveva suscitato subito grandi perplessità sia presso il ministero sia presso la procura generale, in quanto la legge 237/12 richiede l’intervento, sul punto, del ministro in prima battuta e poi degli organi giudiziari.
Alla fine, la Corte di appello di Roma, cui spettava la decisione di emettere o meno il provvedimento cautelare definitivo, di fronte alla sconsolante inerzia del ministro e del procuratore generale, ha alzato bandiera bianca e liberato il torturatore. Questi era già atteso da un aereo dei servizi, messo gentilmente a disposizione dal governo italiano, evidentemente dotato di facoltà divinatorie, perché aveva anticipato la decisione della Corte.
Una precisazione: come detto, la legge 237/12 che regola l’esecuzione in Italia dei provvedimenti della Corte penale internazionale (organismo di giustizia sovranazionale contro i crimini umanitari, di cui l’Italia è uno dei padri fondatori) prevede agli articoli due e undici due distinte e concorrenti competenze: quella del governo tramite il guardasigilli e quella della magistratura tramite il procuratore e la Corte di appello di Roma. Sono due competenze concorrenti ed integrate.
Non è mancato chi, come l’ex membro della Corte penale Cuno Tarfusser, è corso in soccorso del governo sostenendo che l’iniziativa per la convalida dell’arresto di Almasri spettasse ai magistrati, che secondo lui dovrebbero essere pure indagati. Purtroppo, l’autorevole parere è stato smentito da una fonte al di sopra di ogni sospetto: il medesimo guardasigilli Carlo Nordio che, riferendo al Parlamento insieme al collega Matteo Piantedosi, ha testualmente rivendicato le sue competenze, per cui i «rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia, al quale compete di ricevere le richieste della Corte e, ove ne ricorra la necessità, di concordare la propria azione con quella di altri ministri interessati, con altre istituzioni o organi dello Stato».
Non solo, Nordio ha altresì puntualizzato che «l’attività del ministro della Giustizia non è quella di passacarte, ma di un organismo che deve avviare un’attività istruttoria o pre-istruttoria, che potrebbe coinvolgere anche altri organi». E dunque egli stesso ha spiegato, ricorrendo a uno spiccato latinorum giuridico di manzoniana memoria, che la richiesta della Corte penale lui l’aveva ritenuta erronea.
Una piena, indiscutibile assunzione di responsabilità che, ahimè, suona pure da confessione. Come ogni avvocato avventurato sa, capita molto spesso che i clienti pensino di potersi difendere da soli: una sindrome diffusa soprattutto presso i magistrati che incappino per loro disgrazia in un processo. Gli esiti sono quasi sempre disastrosi, e Nordio non sfugge alla regola.
Per porre rimedio allo scivolone, il suo difensore privato (oltre che di tutti gli indagati) e per mera coincidenza presidente della Commissione giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, secondo quanto riferito dal tribunale, allo spirare dell’indagine ha depositato una memoria dove ha introdotto sul già affollato terreno giudiziario un nuovo protagonista il cui fantasma aleggia da tempo: «l’interesse nazionale», che ha invocato come scriminante della condotta dei suoi assistiti.
Nella richiesta di autorizzazione infatti emerge che i capi dei servizi, in particolare il prefetto Giovanni Caravelli, capo dell’Aise, avevano avvertito il governo che la consegna di Almasri avrebbe causato seri rischi per gli interessi italiani in Libia e gravi complicazioni sui controlli dei flussi irregolari di migranti.
Il richiamo ai superiori interessi della nazione è, tuttavia, al contempo una secca smentita della difesa di Nordio e una sostanziale ammissione della sussistenza dei reati contestati, che possono essere dichiarati improcedibili secondo una norma di un regolamento internazionale invocata da Bongiorno, ma non negati nella loro fondatezza. Insomma, diciamo: non una linea difensiva coerente a prima vista, ma purtroppo il bravo avvocato deve tessere la tela col materiale non sempre eccelso che gli forniscono la causa e i clienti.
La realtà, a dirla tutta, è che, nonostante i solerti complottisti nei giornali, l’attuale governo ha mostrato la sua inadeguatezza. Cosa si rivendica a fare l’autonomia della politica se poi non si ha il coraggio di usarla, perché di giustizialismo e populismo non si può fare a meno? Alla fine, non vi è dubbio, che strepitando e buttando fumo negli occhi, sottosegretario e ministri verranno salvati.
Resterebbe invece in bilico Giusi Bartolozzi, potentissima capo-gabinetto di Nordio, che emerge dalle pagine dell’indagine come un’assoluta protagonista. È lei che intercetta subito le perplessità e le difficoltà della vicenda, intima ai suoi collaboratori ministeriali di parlare solo su chat criptate, partecipa a varie riunioni. Alla fine, il risultato è che un provvedimento già vergato con cui il ministro avrebbe dovuto dare via libera alla procedura di consegna di Almasri è rimasto in bianco. Chiamata a deporre, Bartolozzi, secondo quanto riferito dai giudici, si sarebbe giustificata in modo non credibile, sostenendo che riteneva ci fosse più tempo per far firmare a Nordio il provvedimento. La deposizione di Bartolozzi è stata definita dal tribunale «inattendibile e reticente».
Ne è scaturito un dibattito, alimentato da un’allusione del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia Parodi, sulla evenienza che Bartolozzi possa essere sottoposta a un separato procedimento ad opera dell’autorità giudiziaria ordinaria. L’ipotesi possiamo anticipare che sia da scartare: come ha rilevato il costituzionalista Stefano Ceccanti, la legge 1/89 prevede il passaggio dell’autorizzazione parlamentare non solo per i membri del governo ma anche per i laici che abbiano concorso o commesso reati connessi a quelli dei primi.
Ove si voglia ritenere che Bartolozzi abbia mentito, non vi è dubbio che l’eventuale reato di false dichiarazioni al pubblico ministero sarebbe connesso a quelli attribuiti ai ministri, perché commesso «per eseguire o per occultare gli altri» (articolo 12, lettera c, Cpp). Di più, la capo-gabinetto potrebbe rivendicare, tra le righe, di aver voluto proteggere anche il proprio ruolo nella vicenda, per cui sarebbe esentata dal deporre il vero (e qui ci sarebbe da chiedersi se la funzionaria non abbia reso dichiarazioni auto-incriminatrici deponendo come testimone e pertanto inutilizzabili ex articolo 64 del codice di procedura penale).
Insomma, a restare col cerino in mano sarebbe ancora il procuratore Lo Voi, che dovrebbe decidere come regolarsi con la collega Bartolozzi. Il tribunale ipotizza possibili reati per i quali non ha potuto procedere, perché l’iniziativa spetta alla pubblica accusa.
Lo Voi, in omaggio al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, dovrebbe iscrivere, ancora come «atto dovuto», la potente capo-gabinetto tra gli indagati, scatenando l’ennesimo polverone. Potrebbe altresì iscriverla e inviare gli atti al tribunale dei ministri, perché proceda contro di lei chiedendo l’autorizzazione al Parlamento perché autrice di reato connesso a reati ministeriali.
Potrebbe infine iscriverla e contestualmente chiedere al giudice ordinario di archiviarla, perché ha mentito al giudice ma per proteggere se stessa e dunque non punibile – e forse politicamente sarebbe ancora più devastante. Ognuna di queste decisioni scatenerà la tempesta. Qualcuno salvi il procuratore Lo Voi, la vera vittima.
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