La disfatta di Trump (e nostra) al vertice degli autocrati in Cina

La catastrofica disfatta americana e occidentale causata da Donald Trump e dalla sua banda di scappati di casa è stata celebrata ieri a Tianjin, nella Cina orientale, con il vertice degli autocrati di tutto il mondo guidato dal cinese Xi Jinping e con la partecipazione mano nella mano del russo Vladimir Putin e dell’indiano Narendra Modi. Con loro anche una ventina di altri bravi picciotti come l’iraniano Masoud Pezeshkian, il bielorusso Aleksandr Lukashenko e il turco Recep Erdogan, in attesa che in Cina arrivi pure il nordcoreano Kim Jong-un per assistere alla parata militare a piazza Tiananmen.
L’obiettivo del summit degli autocrati è quello di segnalare al resto del mondo che esiste un’alternativa credibile e affidabile alla leadership globale degli Stati Uniti, mai così ammaccata dalle follie di un presidente americano che si crede re e che ha dichiarato guerra commerciale innanzitutto ai suoi alleati senza nessuna ragione, mentre sul fronte interno si sta impegnando a sfoltire la popolazione americana cancellando il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (ieri gli ultimi nove direttori dell’ente, nominati da presidenti democratici e repubblicani, hanno scritto al New York Times per avvertire i connazionali che sta succedendo esattamente questo).
Gli altri due lasciti del vertice in Cina, entrambi imputabili a Trump, sono la rinnovata centralità di Putin dopo la sceneggiata del tappeto rosso più applausi in Alaska, e l’avvicinamento dell’India all’asse degli autocrati di Pechino. Un risultato straordinario per il sedicente artista degli affari, ma che in realtà è il primo presidente antiamericano degli Stati Uniti, un buono a nulla ma capace di tutto.
In questi mesi, gli aedi anche italiani di Trump hanno giustificato la politica pro Mosca di Washington spiegando, spesso con effetti comici, la raffinata strategia della Casa Bianca per staccare la Russia dalla Cina e avvicinarla agli Stati Uniti, addirittura paragonando i tweet strampalati di Trump alla dottrina Nixon che negli anni Settanta riuscì ad allontanare la Cina dall’Urss e ad avvicinarla all’America.
Altro che “Reverse Nixon”, la dottrina Trump non ha paragoni seri né riferimenti possibili se non nelle faide tra cosche mafiose: molto più semplicemente, la dottrina Trump è centrata su Trump medesimo, sul suo marchio, sui suoi interessi, sui suoi narcisismi.
Il caso indiano è emblematico: l’India è il grande avversario della Cina tra le potenze economiche e politiche emergenti, eppure Trump – anziché consolidare il rapporto con Nuova Delhi costruito dai suoi predecessori proprio per costruire una via asiatica alternativa alla Cina – ha imposto dazi al cinquanta per cento sulle importazioni indiane, facendo riavvicinare Modi al blocco guidato dalla Cina.
L’idea che Trump abbia voluto punire l’India per gli affari indiani col petrolio russo è surreale, visto che Trump non fa mai niente contro la Russia per i crimini commessi in Ucraina e altrove (compreso il tentativo di ieri di prendere il controllo dell’aereo di Ursula von der Leyen). Anzi come è noto, Trump asseconda Putin in ogni modo possibile.
Non è necessario scervellarsi, quindi, per trovare una spiegazione plausibile agli scellerati dazi contro l’India, perché quando di mezzo c’è Trump la spiegazione è sempre la più meschina e riguarda inesorabilmente il suo ego. In questo caso specifico, Trump ha imposto dazi del cinquanta per cento all’India, sconquassando ulteriormente gli equilibri geopolitici globali, perché il diciassette giugno ha telefonato a Modi per chiedergli di candidarlo al Premio Nobel per la pace, un meritato riconoscimento per aver risolto (dice lui, da mitomane vero) la guerra tra India e Pakistan. Modi ha provato a spiegargli la differenza tra un cessate il fuoco e la pace tra due paesi che se le danno di santa ragione da quasi ottant’anni, e soprattutto gli ha ricordato che l’accordo sul cessate il fuoco è stato raggiunto senza nessun aiuto americano.
Quando un insistente Trump ha aggiunto che i pakistani lo avrebbero candidato al Nobel, e che per questo avrebbe dovuto farlo anche l’India, poco è mancato che Modi non gli chiudesse il telefono in faccia, anche per l’inutilità di spiegare a un ignorante come Trump che per un nazionalista come Modi una tregua con i pakistani mediata dagli americani avrebbe significato la sua fine politica.
Ma a Trump interessa soltanto potersi fregiare del Nobel oppure di poter mettere il suo brand in bella vista sul piano più alto di un grattacielo di Nuova Delhi. Non riuscendoci, ha deciso di farla pagare all’India, e con l’India anche all’America e al resto del mondo democratico.
Con l’America in queste condizioni, non più affidabile nemmeno per gli alleati storici, e sempre più avviata verso un declino autoritario, con l’esercito per strada a intimidire le città che votano democratico, con le minacce alle università, ai media, agli studi legali, con le attività di manipolazione preventiva del voto e la nomina di lestofanti alla guida degli apparati di sicurezza e di avvocaticchi Maga nelle corti federali, non ci sono più le condizioni per l’unità del mondo liberal democratico a guida americana. Gli europei sanno che cosa ci aspetta e provano a rendersi militarmente autonomi e politicamente uniti, ma con tutte le critiche che si possono fare alle istituzioni europee e ai paesi dell’Unione, a cominciare dall’Italia di Giorgia Meloni, otto decenni di delega della sicurezza agli americani non si possono sostituire in pochi mesi.
Oggi l’America non fa più l’America, anzi con Trump imita in modo sguaiato l’autoritarismo d’acciaio dei paesi dittatoriali riunitisi ieri a Tianjin, e in più punta a sbriciolare la comunità internazionale liberal democratica.
Trump in poche settimane alla Casa Bianca ha smagnetizzato l’Occidente, e ora il campo magnetico capace di attrarre consensi e di ispirare modelli di organizzazione statuale alternativi è quello della Cina e dei suoi picciotti.
Grazie a Trump, e con la complicità degli utili idioti del nostro discorso pubblico, sta nascendo un nuovo ordine mondiale alternativo a quello americano: un modello a guida cinese con tutti i peggiori ceffi del pianeta, e con Putin tra i principali esponenti, fondato su autoritarismo, imperialismo e società chiusa.
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